Il San Matteo del Ghiberti

La perdita e il recupero della fusione a cera persa

La fusione in bronzo con la tecnica della cera persa si era persa con la caduta dell’impero Romano, tanto che nel medioevo la scultura era eseguita esclusivamente in marmo e in pietra, ed anche le rare porte bronzee venivano fatte fondere a Costantinopoli, dove i Bizantini avevano mantenuto, in parte, le conoscenze di questa tecnica.
Sono stati i primi artisti rinascimentali fiorentini a risperimentare la tecnica della fusione a cera persa, avvalendosi agli inizi dell’ aiuto di fonditori bizantini e veneziani. E le prime fusioni, anche se di pezzi piccoli e a bassorilievo, riuscivano con vari difetti, come si può vedere nelle formelle della Porta del Paradiso del Ghiberti, in cui sono state eseguite delle rifusioni per riparare mancanze e lacune.

Una fusione a cera persa rinascimentale, problematica e difficile

La chiesa di Orsanmichele di Firenze è costellata all’esterno, nella parte bassa, di splendide nicchie entro le quali sono state poste grandi sculture in bronzo e in marmo, ognuna sponsorizzata da una delle 14 “Arti” fiorentine. Attualmente sono state tutte sostituite da repliche e gli originali sono custoditi all’interno del secondo piano della costruzione, cioè nel Museo di Orsanmichele

L’Arte del Cambio di Firenze commissionò nel 1419 a Lorenzo Ghiberti quella del proprio patrono San Matteo: doveva essere fusa in bronzo con la tecnica della cera persa, alta 2,7 metri, e fusa in un unico pezzo, cioè con un unico getto di bronzo. Il Ghiberti, azzardando, accettò la sfida, ma gli andò male. Sembra che la prima fusione non fosse riuscita, e che il Ghiberti abbia dovuto eseguirne una seconda a sue spese. Comunque sia andata la vicenda, quello che è chiaro è che la statua che è arrivata a noi, è stata fusa in due volte: prima la parte bassa, e successivamente è stata rigettata sopra questa la parte alta. E’ stata cioè eseguita in due volte e in due parti, ma non per scelta, ma perché la prima gettata non è riuscita a completare anche la parte superiore della grande statua. Dal momento che la statua è arrivata fino a noi cosiffatta vuol dire anche che è stata accettata dalla committenza.

Il restauro e la sostituzione con la replica

Il San Matteo eseguito dal Ghiberti è stato rimosso dalla nicchia della chiesa di Orsanmichele ed è stato portato all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze per procedere al suo restauro.

La Galleria Bazzanti insieme alla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli si sono offerte di fondere a cera persa a proprie spese la replica della grande scultura. E proprio nelle fasi di studio, e poi all’inizio dell’esecuzione del calco negativo, è risultato chiaro che la statua è stata fusa in due tempi, con la parte superiore rigettata sopra quella inferiore

Si è iniziato appunto con lo studio della fattibilità del calco negativo che ovviamente non danneggiasse né la patina né la superficie bronzea originale

e subito dopo con l’esecuzione del calco in silicone e madreforma.

Dai calchi così eseguiti nella Fonderia Ferdinando Marinelli si sono ottenute le cere, trasformate in bronzo con la tecnica della cera persa. La fusione è stata fatta in 4 parti (due per il corpo, la testa e la mano col Vangelo) assemblate e saldate con la stessa lega di bronzo.

La replica ha così sostituito l’originale con una cerimonia dell’inaugurazione.

La replica è stata apprezzata anche dalle autorità (Leggi qui). Le successive defezioni dei piccioni hanno contribuito ad “antichizzare” la patina


L'arte della fusione a cera persa

Parte 1

La realizzazione di sculture in bronzo è sempre risultata in antico più complessa e costosa di quella di sculture in marmo o in pietra.
Il bronzo è una lega metallica i cui componenti sono stati in passato di difficile reperibilità, quindi costosi. I Romani consideravano prezioso e nobile questo metallo, tanto da usarlo per fonderne monete

IV sec. A.C.

e coniarne.

III sec. A.C.

Ed anche la tecnica di fusione era complessa, costosa e presentava alti rischi di cattiva riuscita.
Molto usata in epoca classica (nell’antica Grecia esistevano fonderie di produzione semiseriale), nel medioevo la scultura in bronzo è diventata molto rara.
Solo col primo rinascimento si è ricominciato a produrre opere d’arte tramite la fusione a cera persa in bronzo, produzione che è continuata fino ai giorni nostri.

Il bronzo è una lega che si ottiene unendo in fusione rame e stagno in percentuali diverse a seconda delle caratteristiche che il metallo deve avere (la lega ottenuta da rame e zinco è invece ottone). Mentre nelle varie epoche la tecnica della fusione a cera persa è rimasta pressoché immutata, per la lega, cioè per le percentuali di rame e di stagno, sono state fatte molte prove, in alcuni casi anche con l’aggiunta in piccole quantità di altri metalli, per migliorarne la scorrevolezza durante la gettata o le caratteristiche meccaniche: leghe per cannoni (la lega bombarda), la lega per campane, e la lega statuaria usata fin dal tardo Rinascimento per le sculture e per il conio di monete.
Biringuccio, alla metà del Cinquecento,

consiglia per gittar figure un bronzo con la percentuale di stagno variabile dal 7,4 al 10,7.
Nella Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli viene adoprato il bronzo Bz 90/10, in cui la percentuale di stagno è del 10%.

Per la tecnica della cera persa occorre molta esperienza: specie in passato errori nella composizione del materiale refrattario, nella cottura delle forme, nella temperatura in cui il bronzo veniva gettato, potevano compromettere la fusione.

Nella tecnica della fusione a cera persa i materiali, gli utensili, i macchinari, se così si possono chiamare sono rimasti gli stessi dal Rinascimento alla metà del ‘900.
Solo dopo tale data alcuni materiali e alcune attrezzature sono leggermente cambiati per rendere più sicuro e meno faticoso il lavoro degli artigiani fonditori. Ma la tecnica è rimasta esattamente la stessa, legata alle mani dell’artigiano fonditore.
(Le immagini in bianco e nero si riferiscono alla Fonderia Ferdinando Marinelli negli anni ’50)
La prima fase di questa tecnica è quella dell’esecuzione di un calco negativo sopra l’opera scultorea che si vuole riprodurre in bronzo, come ad esempio una scultura in creta.

Ottenere un calco negativo per una scultura a tutto tondo con molti sottosquadri comporta delle difficoltà; nell’antichità si usava la formatura a tasselli dove il calco veniva eseguito in tante piccole parti di gesso dette appunto tasselli, ognuna staccabile ed estraibile dalla scultura, parti tenute insieme da un controguscio esterno anch’esso in gesso detto madreforma.

Dal Rinascimento si è cominciata ad usare anche una sostanza elastica ottenuta da colla animale mescolata a grasso, sciolta a bagnomaria ed applicata a pennello sulla superficie della scultura; questa colla, raffreddandosi, diventa dura ma rimane elastica e flessibile, permettendo il distacco dalla scultura anche in casi di sottosquadri.


Donatello e il Putto nella scultura - Parte III

Donatello dal 1420 al 1440

Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello, nasce a Firenze nel 1386. Ha una vita lunghissima, muore a Firenze nel 1466 all’età di 80 anni.

Venne educato nella casa dei Martelli, ricchissimi signori rinascimentali che avevano fatto i soldi come fabbricatori di armi alleatisi poi con la famiglia Medici. Era signorile ed elegante, ma ciò non gli proibì nel 1401 di picchiare e ferire gravemente a Pistoia un tedesco, tale Anichinus Pieri, per cui fu condannato.
Fu probabilmente a Pistoia che lavorò come apprendista orafo insieme al Brunelleschi per il grande altare d’argento per la cattedrale della città.

La frequentazione e l’amicizia col Brunelleschi fu molto importante per Donatello; infatti andarono insieme, dal 1402 al 1404, a Roma per studiare e disegnare l’arte romana antica. Nel 1404 era di nuovo a Firenze dove fino al 1407 lavorò come aiutante alla prima porta (nord) del Battistero fusa a cera persa dal Ghiberti. Dal 1406 lavorò insieme ad altre sculture per la città di Firenze, alla Porta della Mandorla del Duomo e successivamente con Jacopo della Quercia al fonte battesimale di Siena. E in Orsanmichele con Nanni di Banco. Ebbe modo quindi di assistere alla nascita della nuova tipologia del putto di tipo romano classico.
Tra il 1423 e il 1425 scolpì e fuse la statua di San Luigi di Tolosa commissionata dalla Parte Guelfa per una nicchia esterna di Orsanmichele (Museo dell’Opera di Santa Croce, Firenze).

Donatello pone in alto nell’architettura della nicchia di marmo due putti regginastro nel suo tipico stile a bassorilievo “stiacciato”, insieme ad altre testine di cherubini.

Donatello decora la parte alta del bastone pastorale del santo con delle nicchie da cui fuoriescono piccoli putti in piedi a tutto tondo che reggono degli stemmi; benché molto piccole, sono le prime statuette in bronzo del ‘400.

Nella Madonna col Bambino in braccio che siede sulle nuvole, in marmo eseguita tra il 1425 e il 1428, scolpisce nove putti-Eroti alati e seminudi in veste di angeli (in precedenza gli angeli erano vestiti pesantemente); sono scolpiti di scorcio con la sua tipica tecnica “allo stiacciato”, (Mus. Fine Arts Boston).

Anche in un altro bassorilievo in “stiacciato”, l’ascensione e la consegna delle chiavi a S. Pietro (Victoria & Albert Museum Londra) che si ritiene scolpito nello stesso periodo del precedente (1425-1428) sono presenti dei piccoli angeli-putti paffuti vestiti di velo. Quelli in alto sono classicheggianti,

quelli in basso, più adulti, hanno on po’ più le sembianze di angeli.

Gli angeli musicanti e danzanti e il banchetto di Erode fanno parte del Fonte battesimale del Battistero di Siena, eseguito in collaborazione tra Ghiberti, Jacopo della Quercia, Turino di Sano, Giovanni Turini e Donatello. Il Fonte è stato creato tra il 1416 e il 1427. Nel 1416 Ghiberti è a Siena, nel 1417 crea un modello in cui applicare alla base bassorilievi e figure a tutto tondo di bronzo. Due bassorilievi furono affidati al Ghiberti (Battesimo di Cristo e Cattura del Battista), due a Jacopo della Quercia (Cacciata di Zaccaria dal Tempio e il Banchetto di Erode), due a Turino di Sano insieme al figlio Giovanni Turini (La nascita del Battista e la Preghiera del Battista). Nel 1423 Jacopo non aveva ancora cominciato a modellare il banchetto di Erode, che fu allogato quindi a Donatello, insieme alle due statuette delle Virtù e due putti. Nel 1427 Ghiberti e Donatello consegnarono i loro bassorilievi, e Jacopo cominciò il suo. Nel 1428 fu allogato a Jacopo il completamento di tutto il Fonte.
Nel suo bassorilievo del Banchetto di Erode Donatello ha inserito le figure di due putti assolutamente classici con i vestiti di tipo antico, abbastanza discinti, impauriti e orripilati dallo spettacolo della testa di Giovanni sul piatto. È la prima volta che dei putti vengono inseriti nella scena drammatica e orribile della decapitazione del Battista.

Anche il motivo della gamba sinistra del putto in terra è di ispirazione classica, probabilmente tratto da qualche scultura antica o un urna cineraria Etrusca, come quella ai Musei Vaticani di Thana Helusnei.

Sulla sommità del Fonte c’erano in origine 6 putti a tutto tondo in bronzo, e ne sono rimasti quattro di cui due di Donatello, eseguiti nel 1429, e due di Turini eseguiti nel 1431. Dei donatelliani, uno suona il corno, l’altro balla e suona il tamburello (Museo Bode Berlino). Donatello ha creato qui il putto danzante che deriva dagli angeli (adulti) musicanti del medioevo. Sono i precursori dei putti delle cantorie di Firenze e di Prato. Hanno inoltre la caratteristica di essere autonomi, di essere cioè, una volta staccati dal Fonte, piccole statue che non necessitano di nessuno sfondo per esistere, e che anticipano le più grandi sculture a tutto tondo del rinascimento. Stanno in piedi su una conchiglia circondata da una corona, simboli di nascita (il battesimo) e di vittoria (sulla morte).

L’antipapa Baldassarre Coscia Giovanni XXIII eletto nel 1410 morì a Firenze nel 1419. Donatello e Michelozzo progettarono e costruirono la tomba posta all’interno del Battistero di Firenze.

Sulla base su cui poggia il sarcofago sono scolpiti in bassorilievo due putti alati nudi che reggono una pergamena con una scritta.

L’uso di putti pagani nella tomba di un papa ci fa capire come all’inizio del ‘400 la figura del putto-Erote si fosse serenamente ri-cristianizzata.


Michelangelo e le cave di marmo

Parte II

Le cave di Serravezza - Pietrasanta

Michelangelo, come lui stesso scrive nel marzo 1520, per richiesta del Papa nel 1517-8 parte da Roma alla volta delle cave di Serravezza: “Fui mandato da Roma a Seraveza, innanzi vi si chominciassi a chavare, a vedere se v’ era marmi”.

Ma continua a farli cavare a Carrara.
Finalmente però si convince a far estrarre i marmi a Serravezza così come gli chiedeva il Papa, con anche l’apprezzamento del cardinale Giulio dei Medici, famiglia proprietaria delle cave di Pietrasanta e Serravezza, che gli scrive in tal senso il 23 marzo 1518. Cosimo I farà poi costruire nel 1564, in queste terre, la villa medicea di Serravezza, probabilmente dal Buontalenti.

Da una lettera scritta anch’essa nel marzo del 1920 a Sebastiano del Piombo, Michelangelo, che è sempre stato contrario alle cave di Serravezza, giustifica questo cambiamento dicendo che: “E non mi sendo là [Carrara] osservati contratti e allogagione fatte prima di marmi per detta opera e volendomi e’ Carraresi assediare, andai a far cavare detti marmi a Seravezza, montagna di Pietrasanta, in su quello [territorio] de’ Fiorentini”. E sicuramente gli pesa dover far aprire nuove cave vergini, piuttosto che servirsi di quelle avviatissime e note di Carrara. Inoltre i Carraresi boicottano il trasporto per mare dei blocchi già acquistati e cavati, tanto che Michelangelo è costretto a ricorrere alla raccomandazione di Jacopo Salviati per convincere un traghettatore di Pisa.
Ma Serravezza lo delude: i marmi non sono come li vorrebbe, le consegne sono in forte ritardo, la strada per giungervi non è ancora terminata.
Ora Michelangelo è arrabbiatissimo, e il 18 Aprile 1518 scrive da Pietrasanta al fratello Buonarroto: “Oh maledetto mille volte el dì e l’ ora che io mi partii da Carrara! Questa è cagione della mia rovina: ma io vi ritornerò presto… e monterò subito a cavallo e anderò a trovare el cardinale de’ Medici e e Papa e dirò loro el fatto mio e qui lascierò l’ impresa e ritorneromi a Carrara, che ne sono pregato come si prega Cristo”.
Torna in effetti a Carrara, ma le cose anche lì si sono complicate enormemente: prezzi sempre più alti per il marmo, infinite difficoltà per il trasporto. A Serravezza le cose non vanno meglio: gli scalpellini, tutti di Settignano presso Fiesole non hanno esperienza per cavare il marmo, nella cava si susseguono incidenti, uno di cui mortale, non si riesce a scavare una colonna sana senza venature impreviste o senza che si rompa. Ha dovuto commissionare e pagare alcuni pezzi architettonici tre volte, ha dovuto di persona andare a insegnare agli inesperti cavatori il verso del marmo, come scrive nella lettera a Domenico di Boninsegni alle fine di dicembre 1518:
“…e’ marmi di San Lorenzo. Io gli ò allogati già tre volte, ettuct’a tre sono rimasto gabato e questo perché gli scarpellini di qua non s’ intendono de’ marmi e visto che e’ non riesce loro, si vanno con Dio. E così ho buttato via parechi centinaia di ducati; e per questo mi è bisognato starvi qualche volta amme, e mectergli in opera e a mostrar loro è versi de’ marmi…”
Dopo una serie di incidenti anche nel carico sulle navi, fraintendimenti col marchese Alberico Malaspina,

Michelangelo commissiona dei blocchi ai Carraresi, e comunica al cardinale Giulio dei Medici di aver trovato questi cavatori “più umili che non sogliono”. Il Papa momentaneamente rinuncia al progetto di sfruttare le cave di Serravezza e accetta Carrara, così come vuole Michelangelo.
Il Vasari, artista a servizio dei Medici, nel suo “Dell’Architettura” sarà l’unico che elogerà i marmi delle cave di Pietrasanta, di proprietà dei Medici.

Le cose continuano ad andare a rilento e il cardinale Giulio Della Rovere invia il segretario papale Pallavicino nello studio di Michelangelo a Firenze, dove trova con soddisfazione 4 statue sbozzate per la facciata di San Lorenzo.
Per controllare le forniture, perennemente in ritardo dei marmi per la facciata di San Lorenzo , Michelangelo manda a cavallo più volte alle cave carraresi il suo discepolo Pietro Urbano insieme ad un garzone. Compito difficile, perché riuscire ad individuare nei blocchi i peli, cioè le microfratture, e ancor di più riuscire a capire che direzione prendono all’ interno del blocco, è difficilissimo. Tant’ è vero che anche nel marmo della Pietà di Firenze durante il restauro è apparsa una di queste microfratture, e in quello del Mosè un pelo evidente parte dal mantello e attraversa il ginocchio destro.
Nel suo studio di via Mozza a Firenze, Michelangelo, aiutato dal settignanese Maestro Domenico di Giovanni di Bertino detto Topolino, continua la lavorazione dei marmi per la facciata. Vengono inoltre eseguite le fondazioni della nuova facciata.
Ma nel 1519-1520 il lavoro alla facciata viene bloccato: il Papa sembra non essere più interessato, o forse anche per la mancanza di fondi (Vasari). Tra febbraio e marzo 1520 il contratto viene annullato: Michelangelo è amareggiato, anche perché la vera ragione del blocco dei lavori non gli viene detta, e scrive che a causa degli infiniti spostamenti per Carrara e Pietrasanta “…sono stato a cavallo otto mesi…“.
I marmi ancora nelle cave vengono acquistati in parte dal Sansovino, in parte sono inviati a Napoli per Vittorio Ghiberti (figlio di Lorenzo Ghiberti).
Ma presto Michelangelo si rincuora: riceve da Giulio dei Medici, il futuro papa Clemente VII, l’ incarico di progettare la Sacrestia Nuova in San Lorenzo, per custodire le tombe di Lorenzo il Magnifico e del fratello Giuliano, di Lorenzo duca d’ Urbino (settimo figlio di Lorenzo il Magnifico), e di Giuliano duca di Nemours (nipote di Lorenzo il Magnifico).

Nel 1521 riceve 200 ducati dal cardinale Giulio e il 9 aprile torna a Carrara ad ordinare i marmi per le tombe della Sacrestia Nuova. Si ferma circa 20 giorni facendo le misure di dette sepolture di terra e disegnandole. Ritorna nella casa del cavatore Francesco Pelliccia, come suo solito a Carrara, ordina 200 carrate di marmo specificate sul contratto notarile che stipula il 23 aprile con i cavatori Pollina, Leone e Bello. Il 2 aprile stipula un’altro contratto per 100 carrate di marmo con i cavatori Marcuccio e Francione del Ferraro.
Fin dal 1520 Michelangelo disegna vari progetti per le tombe, che discute col cardinale Giulio. Nel 1524 creai i modelli definitivi che inizia a scolpire. Nel 1526 viene murata nella cappella la prima tomba, quella di Lorenzo duca d’ Urbino con la statua di Lorenzo in posa di pensatore e le allegorie dell’Aurora e del Crepuscolo.

Successivamente scolpisce, con l’aiuto del Montorsoli, quella di Giuliano duca di Nemours con le allegorie della Notte e del Giorno.
Le vicende relative alle forniture dei marmi da Carrara si fanno ingarbugliate e complesse, Michelangelo torna più volte a Carrara, ma è troppo impegnato a Firenze e lascia suoi secondi a gestire le estrazioni. Ma il lavoro alla Sacrestia Nuova va avanti.
Nel 1527 a seguito della crisi tra il papa Clemente VII dei Medici e l’imperatore Carlo V d’ Asburgo il popolo fiorentino, fomentato dal frate Girolamo Savonarola, scaccia i Medici da Firenze istituendo un governo Repubblicano. Michelangelo collabora col nuovo governo occupandosi delle fortificazioni. Nel 1530 Firenze viene assediata e si arrende nel 1532, il governo repubblicano viene sostituito dalla signoria medicea di Alessandro dei Medici, figlio illegittimo del papa Clemente VII.

Al ritorno dei Medici Michelangelo riprende i lavori per la Sacrestia Nuova che proseguno fino al 1534, anno in cui va a Roma ad affrescare la Cappella Sistina.


Donatello e il putto nella scultura - Parte II

Il Rinascimento

Nel fianco sinistro del Duomo di Firenze (Santa Maria del Fiore) si apre la Porta della Mandorla, eseguita in tre fasi: 1391-1397, 1404 -1409, 1414 -1422. Senza inoltrarsi nell’elenco degli artisti che vi hanno lavorato, basta notare come nei fregi laterali compaiano dei putti di tipo classico, alcuni più goffi, altri più evoluti. Sono tra primi “germi” della riscoperta del putto Eros-Amore.

La prima vera comparsa di putti in stile antico si deve a Jacopo della Quercia (con il probabile aiuto di Francesco da Valdambrino) nella tomba che ha eseguito nel 1406 per Ilaria del Carretto, moglie di Paolo Guinigi signore di Lucca, posta nel Duomo della città. È un sarcofago ancora di sapore medievale, con la defunta sul coperchio. Ma il sarcofago è circondato da una serie di putti alati classici, ognuno in posa diversa, che reggono col collo delle altrettanto classiche ghirlande di frutta. Anche se hanno significato funerario, Jacopo per la prima volta ricrea, su modello romano classico, quello che con Donatello sarà il putto rinascimentale.

È molto probabile che Jacopo si sia ispirato ai vari sarcofagi e frammenti di scultura romani presenti a Pisa, alcuni dei quali decorati con putti,

altri con ghirlande come quello di Caius Bellicus Natalis Tabanianus del Camposanto Monumentale di Pisa.

Jacopo ha scolpito, tra il 1425 e il 1438, anche due putti alati di forme classiche inseriti in due mensole della Porta Magna della chiesa di San Petronio a Bologna,

e altrettanto due putti di gusto classico nel bassorilievo di Adamo ed Eva, rappresentanti Caino e Abele.

Un altro esempio interessante si trova nella predella del gruppo scultoreo di una delle nicchie della chiesa di Orsanmichele a Firenze: i Santi Quattro Coronati di Nanni di Banco eseguiti dal 1411 al 1413: è rappresentata in bassorilievo una bottega di scultura in marmo in cui, a destra, si sta curiosamente eseguendo un putto classico ma di grandi dimensioni, quando in realtà la scultura di un nudo grande non era mai stata ancora eseguita; lo sarà non prima del 1440 circa anno in cui Donatello esegue l’ Attis e il suo David.

Nella sagrestia della chiesa di Santa Trinita a Firenze, la tomba di Onofrio Strozzi è costituita da un arco che sovrasta il sarcofago; l’arco è decorato da putti in bassorilievo stiacciato che si arrampicano su una ghirlanda, il cui stile ricorda molto quello di Donatello. Sul sarcofago sono presenti due putti sgraziati e di brutta fattura che reggono uno stemma, nello stile romano antico. Probabilmente è a questi che si riferisce il documento che attribuisce a Piero di Niccolò Lamberti l’ opera, eseguita nel 1418, mentre l’ arco è stato probabilmente eseguito più tardi dalla bottega di Donatello.

Tra il 1415 e il 1421, anno della sua morte, Nanni di Banco ha lavorato all’ esecuzione degli altorilievi della parte superiore della Porta della Mandorla nel Duomo di Firenze. La Madonna contenuta nella “mandorla” è circondata da 6 putti alati vestiti che sono diventati angeli, tre dei quali musicanti; sono più cresciuti dei putti classici. All’interno della mandorla, ai lati della Madonna, ne appaiono altri due, più giovani, e una testa di putto alato (un Serafino) appare anche sotto i suoi piedi. Si tratta di un ibrido: angeli vestiti, con la tipologia e la forma dei putti romani classici che sicuramente hanno influenzato Donatello che già conosceva quelli classici visti nei suoi viaggi a Roma insieme a Filippo Brunelleschi.


Michelangelo e le cave di marmo

Parte I

Michelangelo raggiunge le cave di marmo a Carrara due volte, nel 1497 e nel 1503, ma il Condivi, che ne scrive la biografia pubblicata nel 1553, non ne fa cenno.

Nel novembre del 1497 ci va per trovare il marmo per la Pietà, monumento allogatogli dal cardinale di San Dionigi (Jean de Bilheres de Lagraulas), che scrive agli Anziani di Lucca perché gli diano aiuto al suo arrivo alle cave.

Ancora prima di firmare il contratto con il committente, Michelangelo preleva una somma dal suo conto presso l’Arcispedale di Santa Maria Nuova a Firenze

e su un cavallo grigio parte per Carrara.
Là prende in affitto una casa di proprietà del cavatore Francesco Pelliccia che lavorava nella cava del Polvaccio, dove Michelangelo acquista i blocchi, e che oggi è chiamata appunto Cava di Michelangelo.

Ma vi rimane poco, solo il tempo che gli serve per trovare e scegliere i marmi alla cava dallo scalpellino Matteo Cuccarello e torna a Roma; ai primi di febbraio sono pronti, Michelangelo paga il noleggio di una carretta trainata da un cavallo per il loro trasporto al porto, ma non torna a Carrara: dell’operazione se ne interessa un conoscente del committente, il cardinale di San Dionigi.
Ai primi di marzo i marmi non sono ancora arrivati, Michelangelo li aspetta.
Il cardinale scrive al marchese di Massa Malaspina e alla Signoria di Firenze perché districhino la situazione, finalmente, all’inizio dell’estate, i blocchi arrivano in più volte a Roma.
In agosto viene stipulato il contratto tra i due in cui Michelangelo si impegna per 450 ducati d’oro a scolpire la Pietà quale monumento funebre del cardinale, facendosi carico di tutte le spese.
Nell’ agosto del 1498 la scultura non è ancora terminata, il cardinale muore e non fa in tempo a vederla.

Michelangelo torna alla cava nel 1503, quando l’Opera del Duomo di Firenze gli commissiona l’esecuzione dei dodici apostoli per il duomo, obbligandolo per contratto ad andare a Carrara a scegliersi i marmi.
Li trova quasi tutti, come lui stesso scriverà nel dicembre 1523 a Giovan Francesco Fattucci: …chondocti la maggior parte d’i marmi…, che arrivano a Firenze tra il 1504 e il 1505.
Inizia con lo sbozzare il San Matteo che non finisce (Galleria dell’Accademia, Firenze) ma si ferma perché il papa Giulio II della Rovere lo vuole a Roma, e nel dicembre del 1505 il contratto per gli apostoli viene sciolto.

Il Condivi, nella biografia di Michelangelo, ci dice che nella primavera dello stesso anno ritorna a Carrara. Questa volta l’impegno è importante: cercare i marmi per l’enorme sepolcro che il papa vuole fargli erigere in San Pietro non è uno scherzo. Deve trovare molti blocchi perfetti, per un valore superiore ai mille ducati. E questa volta a Carrara rimane otto mesi.
Il primo contratto che ci è rimasto di questo lungo periodo nelle cave è datato novembre 1505 ed è relativo al trasporto via mare di 34 carrate di marmo: la carrata è la quantità di marmo che un carro con due bovi riesce a trainare in pianura, circa 850 Kg.

È stipulato con due Liguri di Lavagna proprietari di barche, che in una decina di giorni trasporteranno con i navicelli il carico ad Avenza al costo di 62 ducato d’oro, dove Michelangelo lo farà scaricare e trasportare ancora per mare a Roma a sue spese; verranno scaricate alla Ripa del Tevere con i navicelli (oggi Ripa Grande).

Il secondo contratto pervenutoci, datato 10 dicembre 1505 riguarda l’acquisto di altre 60 carrate di marmo dagli scalpellini Matteo Cuccarello e guido di Antonio di Biagio che verranno portati al porto di Carrara per l’ imbarco tra maggio e settembre successivo.
Nel contratto Michelangelo specifica che i marmi devono essere bianchi, senza peli, cioè senza crepe interne, senza venature, devono essere vivi e non cotti, devono essere stati estratti dalla cava del Polvaccio, o da altro luogo in cui si trovino, purchè bianchi netti e belli.
Alcune misure dei blocchi non sono ancora stabilite, e Matteo Cuccarello dovrà andare a Firenze dove Michelangelo gliele darà precise disegnando anche la forma di ogni blocco, come era sua abitudine.

La quantità di marmi ordinati è tale che i vari cavatori nel 1506 creano una società, oggi diremmo una Joint Venture per accontentare lo scultore e il papa.
Quando tutti i marmi arrivano riempiono metà della piazza di San Pietro, con grande ammirazione del popolo e soddisfazione del papa.
La gigantesca tomba a forma piramidale lunga 10 metri e larga 7 sarebbe costata 10.000 ducati a avrebbe impegnato Michelangelo per 5 anni.

Se Michelangelo ha un caratteraccio, Giulio II non è da meno:

questi viene convinto dal Bramante, invidioso, che farsi fare la tomba da vivi porta male, e blocca i pagamenti richiesti da Michelangelo per saldare il costo dei trasporti dei marmi; lo scultore si reca più volte e per più giorni dal papa che non lo riceve, Il 18 aprile l’irato Michelangelo fugge a cavallo verso Firenze, Giulio II lo fa rincorrere da 5 corrieri papali che lo raggiungono a Poggibonsi e cercano di farlo tornare a Roma. Ma lo scultore non ne vuol sapere, e pagherà di tasca propria, con un prestito del banco di Jacopo Gallo il costo dei trasporti.
I marmi rimarranno in piazza San Pietro fino alla morte di Giulio II e all’elezione del successivo papa fiorentino Leone X nel 1513.
Gli eredi di Giulio II chiedono a Michelangelo di riprendere il lavoro di scultura della tomba, ma con un progetto meno ambizioso. Ma questo progetto non avrà pace, verrà sempre più ridotto nel 1516, poi nel 1526 e ancora nel 1532, quando il mausoleo dovrà essere posto non più in San Pietro ma nella chiesa di San Pietro in Vincoli. Un successivo progetto lo rimpiccolisce ancora, e solo nel 1545 Michelangelo lo terminerà nella forma e nelle dimensioni che ha ancora oggi.

Nel 1513, quando la lavorazione per il mausoleo papale riparte, i rapporti di Michelangelo con i cavatori di Carrara si inaspriscono, sia per il ritardo nelle consegne dei nuovi blocchi che vanno a sostituire quelli rubati in piazza San Pietro, sia, forse, per la qualità non soddisfacente degli ultimi marmi. O forse anche per i ritardi nel pagamento ai cavatori dei marmi consegnati nel 1508. E non vuole più trattare di persona coi cavatori carraresi: il 7 luglio 1515 Michelangelo scrive al fratello Buonarroto di chiedere allo scalpellino di Pietrasanta Michele da Settignano se può acquistare dei marmi di là, ma dice che non può andare di persona né mandare qualcuno: A Carrara non voglio andare io, perché non posso, e non posso mandar nessuno che sia el bisognio, perché se e’ non sono pazi e’ son traditori e tristi…
Chiede anche al fratello di farlo mettere in contatto con altre persone che possano fare da mediatori tra lui e i Carraresi.
Michelangelo ritornerà a Carrara nel 1516, quando il progetto della tomba di Giulio II ripartirà. Ottiene una lettera di raccomandazione per Lorenzo Malaspina marchese di Fosdinovo, inviata al marchese dalla sorella Argentina Malaspina, moglie di Pier Soderini, forse sollecitata dallo stesso Michelangelo; il Soderini è amico e ammiratore di Michelangelo.

La lettera ha un buon effetto, e viene accolto bene dai cavatori rappresentati dal Caldana (Iacopo d’Antonino di Maffiolo) che gli aveva mandato una lettera a Firenze in cui scrive che è disposto a servirlo di cuore.
Nel novembre del 1516 ordina dei marmi a Francesco Pelliccia, nella cui casa continua ad abitare come affittuario, ma nell’ aprile del 1517 l’ordine viene disdetto di comune accordo. Tuttavia continua ad ordinare marmi alla cava del Polvaccio dai cavatori Mancino, Iacopo di Piero di Torano, e Antonio di Iacopo di Pulica; ma non stanno agli accordi pattuiti, e Michelangelo li cita in giudizio alla curia di Carrara. Michelangelo, che non conosce il latino, esige e ottiene che i notai scrivano in volgare.
Facciamo un passo indietro: nel dicembre del 1516 mentre è a Carrara, il papa Leone X lo vuole a Roma per fargli fare il progetto della facciata incompiuta della chiesa fiorentina di San Lorenzo; tra il 1516 e il 1517 Michelangelo esegue alcuni disegni diversi per la facciata.

con la richiesta del papa, attraverso il Buoninsegni, di mettere nelle nicchie in basso le statue di San Lorenzo, San Giovanni, San Pietro e San Paolo; più in alto quelle sedute di San Luca, san Giovanni, San Matteo, San Marco; ancora più in alto quelle di San Cosma e San Damiano in onore dei Medici.
Disegna anche come suo solito, per i marmi che sceglie e ordina alle cave per San Lorenzo, forma e dimensioni.

Il papa però gli ventila l’ idea che vuole che i marmi siano cavati a Pietrasanta che si trova nel dominio mediceo. Michelangelo nicchia, non vuole staccarsi dalle cave di Carrara, ma il papa non recede: i marmi per San Pietro, per Santa Reparata e per San Lorenzo dovranno essere cavati a Pietrasanta. Con la scusa che la strada per arrivare alle cave di Pietrasanta non è terminata, Michelangelo continua a scegliere i marmi per la facciata di San Lorenzo a Carrara, acquistandone per 4.000 ducati. Ma non è tranquillo, ha avuto l’ incarico di acquistare i marmi, ma non quello di eseguire la facciata, e da Carrara scrive a Domenico Boninsegni, segretario del papa, esprimendo la sua preoccupazione. Il Boninsegni lo tranquillizza, gli dice che il papa avrebbe già voluto veder un modello per la facciata, che è disposto ad aspettare a per averlo, ma lo consiglia di farne al più presto uno di legno da inviare a Roma. Il 20 agosto 1517 lascia Carrara per Firenze per realizzare il modello per il papa, su cui applica i modellini delle sculture fatti in cera. A Firenze si ammala gravemente, ma una volta guarito esegue lo esegue e lo manda a Roma su un mulo tramite il suo allievo Pietro Urbano.

Il papa è entusiasta, lo manda a chiamare e gli affida la realizzazione della facciata; conosce bene come lo scultore lascia tutto incompiuto e quindi lo obbliga ad avvalersi di aiutanti. Il 19 gennaio 1518 viene firmato il contratto con marmi bianchi e fini che siano di Carrara o di Pietrasanta dove meglio [Michelangelo] iudicherà al proposito.


Donatello e il putto nella scultura - Parte I

I Putti nella storia

Nella storia dell’arte occidentale il progenitore del “putto” rinascimentale appare in Grecia sotto forma del giovinetto Eros, dio dell’amore sessuale e del desiderio, ma anche principio divino che spinge verso la bellezza. È figlio di Afrodite e di Ares.
È citato già nell’ VIII secolo a.C. da Esiodo nella “Teogonia”, Euripide nel V secolo a.C. in “Medea” lo descrive come una forza creativa e procreativa dall’aspetto di un giovinetto bellissimo e splendente con ali d’oro.
Oltre alle ali ha come attributi l’arco e le frecce con cui trafigge l’animo e il cuore degli umani provocando il desiderio.

Nel Pantheon romano diventa il dio Amor o Cupidus con gli stessi attributi di Eros, a volte ha anche una torcia, simbolo matrimoniale. Apuleio nell’Asino d’oro (II secolo d.C.) lo descrive ancora come un bellissimo giovane alato.

Un giovane nudo e alato che spenge una torcia sul petto del morente è, in alcuni sarcofagi romani, lo spirito della morte (sarcofago romano col mito di Prometeo, collezione principe Cammillo Panphili, da Santi Bartoli, Bellori, Admiranda Romanarum Antiquitatum, Roma 1691).

Ma col trascorrere degli anni Eros-Cupido viene ringiovanito, non solo, ma nell’arte ellenistica e romana nasce anche uno sciame di Amorini che fanno compagnia a gli Dei e che vanno a decorare parti architettoniche e sarcofagi, affreschi pompeiani, gemme e sigilli, con o senza ali. Ci stiamo avvicinando al modello di putto che verrà ripreso all’inizio del ‘400.

Il bronzo di Eros Dormiente del II secolo a.C. (Metropolitan Museum of art di New York) mostra la tipologia del putto che ha ispirato gli scultori del Rinascimento: il bambino è molto giovane, paffuto, con piccole ali di piume e penne, dai capelli ricciuti e arruffati.

Un altro modello di putto per gli artisti del 1400 è stata la scultura in marmo del II secolo d.C., oggi agli Uffizi, che era nelle collezioni di Lorenzo il Magnifico.

Un ulteriore esempio di putto è stato quello che strozza l’oca, copia romana (110-160 d.C.) di un originale ellenistico scolpito da Beothos di Calcedonia (Musei Capitolini, Roma). Un esemplare in bronzo fuso a cera persa da calco eseguito sull’originale è presente anche alla Galleria Bazzanti di Firenze.

Nell’arte dell’impero romano d’oriente, nato nel V secolo e poi divenuta arte bizantina, il putto non va di moda e non viene usato come simbolo cristiano: tende a sparire. Una rara eccezione è il celebre Cofanetto di Veroli risalente a circa l’anno 1000 al British Museum, in cui il putto è il soggetto  principale.

Il primo cristianesimo trasforma Eros-Cupido in uno spirito tutelare assegnato ad ogni nascituro (il futuro angelo custode), ma nelle pitture delle catacombe e nelle decorazioni delle chiese paleocristiane appaiono anche putti che vendemmiano e vinificano, trasformati così in simboli eucaristici di immortalità.

Celebri sono quelli del grandioso sarcofago di porfido di Costantina, moglie di Costantino, del 354 d.C. (Musei Vaticani).

Il daemon greco, messaggero degli dei che porta le notizie agli uomini, si unisce al concetto di genius che accompagna l’ uomo durante la sua vita. Apuleio nel De Deo Socratis del II secolo d.C. scrive che l’ anima dell’ uomo è il daemon, chiamato genius nel vivo, e lemure nel morto.
Successivamente il Cristianesimo si allontana dal paganesimo cercando di renderne le componenti negative e diaboliche, specie se collegate al sesso. Il daemon diventa uno spirito maligno legato alla magia nera e al diavolo. Il dio Pan (diventato per i Romani Silvano e avvicinato ai satiri), per esempio, dio delle selve e dei pascoli che era spesso rappresentato come Dioniso e Priapo con grandi attributi sessuali,

fu trasformato nel diavolo, a cui furono applicati gli stessi attributi: corna, volto animalesco, parte del corpo con pelo animalesco, gambe da capra, piccola coda, grande fallo da animale.
Nel medioevo Cupido perde la forma classica, l’arte e la letteratura cristiane si allontanano da quell’influenza delle religioni misteriche ellenistiche del cristianesimo iniziale che aveva permesso ai putti di apparire, nella forma classica, nelle vendemmie delle catacombe e del sarcofago di Costantina. L’immagine erotica di Cupido diventa inaccettabile per la chiesa, che comincia a dipingerlo come una emanazione maligna, il suo aspetto perde la gioiosità e diventa sinistro: non più un putto bambino, nel XIV si trasforma secolo in un essere diabolico dalle zampe di animale; lo vediamo in questa veste nell’affresco di Giotto nella Basilica di Assisi (1325) in cui compare la scritta col suo nome “Amor”.

Il suo aiuto Pietro Lorenzetti, nell’Ultima Cena e nella Flagellazione di Cristo dipinge in alto dei putti alati monocromi dall’aspetto sinistro e niente affatto rassicurante che reggono strani animali e oggetti (coniglio, pesce, cornucopie).

Nella facciata del romanico Duomo di Modena il maestro Wiligelmus scolpisce nel 1170 un cupido in forme non più classiche, con le gambe incrociate che si appoggia sulla torcia rovesciata, ed è accompagnato da un ibis, uccello negativo in quanto rappresenta nei bestiari medievali l’ “uomo carnale”.

Nei romanzi cortesi e nella poesia dei Trovatori Eros-Cupido sparisce: nei romanzi del Ciclo Bretone (metà sec. XIII) l’autore Cretien de Troyes descrive le frecce d’amore da cui i suoi personaggi sono colpiti, ma questi non vedono mai l’arciere-eros.
Finalmente nel XIV secolo l’amore comincia anche ad essere considerato una forza positiva, Dante con Beatrice, Petrarca con Laura, e Dante, nella Vita Nova scrive che l’amore non è una divinità, ma una passione della mente umana.


L'inizio della scultura rinascimentale: il David di Donatello

Il secolo XV, inizio del Rinascimento, è un momento fondante della cultura occidentale, i cui princìpi, la filosofia, l’arte ne vengono segnati fino ai giorni nostri.
In questo secolo nascono a Firenze un gruppo di personaggi geniali in tutto lo scibile umano: scienza, astronomia, filosofia, letteratura, umanesimo, esoterismo, tutto trova grazie a loro un nuovo respiro. Ancora oggi nessuno ha saputo spiegarsi come mai in questo periodo storico sono nati tanti geni e tutti in una sola regione, la Toscana.
Uno di questi personaggi è Donato Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello, fiorentino e scultore.

Ritratto di Donatello del XVI sec. (anonimo) – Museo del Louvre

Frequenta il Brunelleschi,

Ritratto di Brunelleschi, Masaccio, S. Pietro in cattedra, Cappella Brancacci

altro grande innovatore nei vari campi dell’arte, e insieme a lui va a Roma, a studiare i monumenti antichi: i due vagavano per la città scavando i ruderi antichi, misurando e disegnando i resti di costruzioni classiche, il popolo romano pensava che si trattasse di due cercatori di tesori. Il tesoro per loro erano quei resti.
Dopo le poche prime opere ancora in stile tardo gotico, Donatello si staccò completamente dal gusto medioevale ritornando nella scultura ad un naturalismo classico di matrice romana, ma più elegante e sensuale, contribuendo a creare in scultura lo “stile rinascimentale”. Frequentò anche Michelozzo, abile fonditore in bronzo a cera persa, da cui imparò tale tecnica.

Fra Angelico, Deposizione dalla Croce, Museo di San Marco, Firenze

Uno dei suoi più importanti capolavori è il David in bronzo,

Museo del Bargello, Firenze

di sorprendente originalità e forza innovativa. L’iconografia data da Donatello a questo suo capolavoro è senza dubbio diversa rispetto a quella tradizionale riferita alla Bibbia: oltre alla nudità il David indossa un cappello che lo avvicina a Mercurio e dei bellissimi calzari cesellati, attributi che erano impreziositi dalle dorature, andate perdute. Nudità, posa e accessori rendono questo capolavoro molto sensuale, e questa è una nuova visione della scultura nata a Firenze negli anni del Rinascimento.
Non abbiamo molte notizie relative a questo bronzo; una di queste ce la dà una lettera che il cronista rinascimentale Marco Parenti scrive da Firenze a Filippo Strozzi il Vecchio, che è a Napoli.
Ma chi è Marco Parenti? Era un agiato imprenditore nel settore della seta, nato a Firenze nel 1421; ebbe l’intelligenza di sposarsi con Caterina figlia del ricchissimo banchiere Simone Strozzi, e si ritirò dagli affari. Partecipò alla vita culturale fiorentina frequentando i circoli umanistici con Leon Battista Alberti. Scrisse i “Ricordi Storici” relativi alle vicende politiche di Firenze.

Ed una lunga serie di lettere, quasi tutte inviate a Filippo Strozzi.

Appunto in una di queste riporta che in occasione delle nozze di Lorenzo il Magnifico con Clarice Orsini, nel cortile del Palazzo Medici di Via Larga (attuale via Cavour) era posta la colonna che sosteneva il David di Donatello. La data del matrimonio è il 1469. Questa è la prima data “post quem” che abbiamo relativa al David.
La datazione dell’opera si ricava considerando che Donatello nei primi anni del 1400 era tornato a Roma a studiare la scultura antica classica, e che dal 1443 al 1445 era nell’Italia Settentrionale.
Quindi il periodo in cui Donatello eseguì il David si restringe dal 1433 al 1454. In questa forbice di anni Donatello eseguì altre tre sculture molto vicine stilisticamente al David: l’Attis (Museo del Bargello)

e i due “spiritelli”, ora al Musee Jacquemart Andree a Parigi,

eseguiti per il cornicione della Cantoria di Luca della Robbia per il Duomo di Firenze, terminata nel 1438 (Museo dell’Opera del Duomo).

A Villa Carducci di Legnaia (Firenze), nel ciclo di donne e uomini illustri,

Andrea del Castagno dipinse tra il 1448 e il 1450 l’affresco di Farinata degli Uberti (ora agli Uffizi), che presenta la stessa posa delle gambe e delle braccia del David, evidentemente copiate da questo. La forbice si restringe ancora, diventando dal 1433 al 1448.

L’ipotesi più accreditata è che Donatello abbia eseguito il modello e la fusione intorno al 1440.
Abbiamo visto che il David era posto su una colonna nel centro del cortile di Palazzo Medici Riccardi;

sappiamo che sulla colonna era stata incisa l’ iscrizione che Cosimo il Vecchio
fece fare da Gentile de’ Becchi, il primo pedagogo di Lorenzo e Giuliano figli di Piero il Gottoso:
Victor est quisquis patriam tuetur / Frangit immanis Deus hostis iras / En puer grandem domuit Tirannum / Vincite cives !
Tale epigrafe ci fa capire che i Medici volevano dare coll’esporre in casa loro il David, (il giovane pastore che uccide il potente e prepotente nemico Golia) un importante messaggio morale e politico con un chiaro significato anti-tirannico; il messaggio era che la presenza dei Medici nella politica fiorentina garantiva la repressione di ogni attacco alla democrazia, da qualsiasi parte provenisse. E questa era la politica dei Medici: comandare la città ma indirettamente, attraverso altre persone a loro fedeli, facendo credere alla città di mantenere un regime democratico (non molto dopo invece Cosimo I dell’ altro ramo della famiglia Medici diventerà dittatore, facendosi dare il titolo prima di Duca, poi di Granduca).

Ritratto del Bronzino, Uffizi

È molto probabile che l’opera sia stata commessa a Donatello da Cosimo il Vecchio stesso,

Ritratto del Bronzino, Uffizi

che l’avrebbe prima esposto nella sua Casa Vecchia, e successivamente nel palazzo Medici progettato per lui da Michelozzo.

Giovanni da Castro era un uomo d’affari legato sia alla famiglia Medici che alla Curia di Roma. Scoprì le cave di allume della Tolfa che permisero di non aver più bisogno di acquistare l’allume dai Turchi, noti infedeli e principalmente abili commercianti. E infatti, sulla scia del David biblico che uccide Golia, fa scrivere lo Psalmum in Christianorum hostem Turchum
su un codice che dona, prima del 1469 a Cosimo il Vecchio, dove i Turchi sono vissuti come invasori eretici e nemici del Cristianesimo, conquistatori nel 1453 di Costantinopoli. Nella miniatura di questo codice viene dipinto il David di Donatello, ma rivestito di una tunichetta per renderlo meno osè.

La colonna su cui il David poggiava era stata fatta eseguire da Desiderio da Settignano intorno al 1458, ed era alta circa due metri, ma purtroppo non ci è pervenuta; al Museo del Bargello di Firenze è stato posto su un altro piedistallo scolpito nel XV secolo per la famiglia Medici ma notevolmente più basso di quello originale.

Che la scultura sia stata eseguita da Donatello per stare in alto e per essere quindi vista dal basso ce lo confermano oltre che lo sguardo rivolto in basso,

anche una serie di forzature anatomiche studiate in funzione del punto di vista dell’osservatore posto appunto molto più in basso rispetto alla scultura: le scapole scese, altrettanto i glutei, il fondoschiena spezzato e spianato, le articolazioni spigolose; inoltre la testa del Golia è piegata in modo da rendere visibile dal basso la placchetta trapezoidale dell’elmo di Golia con il carro degli spiritelli.

Visto dalla base attuale

Visto nella posizione originale

E ci sono anche una serie di zone che Donatello non ha rifinite che dal basso, grazie alla sporgenza della ghirlanda di base, non si vedevano. La testa del Golia vista oggi all’altezza in cui è il David al Bargello dà un’impressione molto diversa se vista dal basso verso l’alto: la sensazione di una cosa morta e abbastanza innocua diventa, se vista dal basso, minacciosa.
Ed anche il posizionamento in alto del corpo rendeva meno eclatante la sua nudità. Nudità che Donatello aveva avuto il coraggio di esaltare nella sua opera in anni in cui nessuno aveva osato farlo. Tanto che i molti David della seconda metà del 1400 mostrano questo personaggio biblico sempre coperto da tuniche, come anche di Giovanni da Castro.

Bisognerà aspettare il XVI secolo con Michelangelo per rivedere un altro David completamente nudo.

È stato ipotizzato che la colonna originale di Desiderio da Settignano su cui era posto il David nel palazzo Medici di via Larga, avesse alla base quattro arpie di marmo bianco e il fusto di porfido rosso. Tecnici specializzati hanno riprodotto all’interno della Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli questo manufatto,

In fase di esecuzione nella Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli

attualmente in deposito presso la Galleria Bazzanti di Firenze

Per la presentazione e l’inaugurazione del David di Donatello dopo il lungo restauro, il Museo del Bargello di Firenze ha chiesto in prestito alla Fonderia Ferdinando Marinelli un esemplare in bronzo del David eseguita sul calco negativo fatto sull’originale presente nella gipsoteca della Fonderia stessa. Tale bronzo è stato dorato dai tecnici del Bargello esattamente come era l’originale prima di perdere l’oro,

ed è stato posto sul modello della colonna ricostruita accanto all’originale. Si è potuto così vedere, per la prima volta, come appariva nel quattrocento, nel cortile dei Medici, il David visto dal basso.


La Fontana del Cacciucco

Da una lettera del 25 giugno 1626, che il Camerlengo Lorenzo Usimbardi scriveva al Granduca Ferdinando II de’ Medici:” appare che Pietro Tacca servo fedelissimo di VV.SS. humilissimamente esprime come avendo messo in opera tutti quanti li schiavi, per compimento di quest’opera è necessario far sotto i piedi del granduca Ferdinando di Gloriosa Memoria li trofei e spoglie di detti schiavi… et più conviene fare le dua fonti e dall’una e dall’altra parte di detta base che di tutto è necessario che VV.AA. dieno ordini al Sig. Provved[itore] Guidotti.”

Il Granduca nel 1621 aveva infatti commissionato a Pietro Tacca la realizzazione dei modelli e delle fusioni in bronzo a cera persa di quattro prigionieri mori incatenati da aggiungere alla base della statua da lui commissionata nel 1595 allo scultore Giovanni Bandini in marmo di Carrara e collocata nella darsena di Livorno nel 1601 (attuale piazza Micheli).

Il monumento avrebbe rappresentato la vittoria dell’Ordine di Santo Stefano sui corsari barbareschi, cioè sui pirati musulmani, nordafricani e ottomani, il più noto e crudele  dei quali era conosciuto come Barbarosa.

L’Ordine venne fondato dal Papa Pio IV nella seconda metà del ‘500 su insistenza di Cosimo I de’ Medici che ne fu nominato Gran Maestro e il titolo sarebbe passato ai suoi successori. Si trattava in sintesi di un Ordine corsaro simile, ma cristiano.

Pietro Tacca ereditò la fonderia del Giambologna, con cui lavorava dal 1592, nel 1606.
Nel 1620 su richiesta di Cosimo II dei Medici eseguì il calco del cinghiale ellenistico di marmo agli Uffizi per fonderne un replica in bronzo, il celebre Porcellino, da porre alle logge del mercato nuovo, e modellò una nuova base, non presente nell’originale di marmo. Ne eseguì la fusione nel 1633.

Da una lettera del 6 ottobre 1627 del Provveditore Leonardo Guidotti conosciamo la spesa stimata dal Tacca per la realizzazione delle due fontane: “Quanto alle dua fontane, il Tacca dicie che in ciascheduna di esse vi sarà di spesa sc[udi] 200 in fare il ricetto, e Balaustro con le mensole tutte di marmi sono sc[udi] 400. Per fare le dua Nicchie li Mostri et altri ornamenti vi andera Duc[ati] 700 di Bronzo per Ciascun,o sc[udi] 126 e per le spese di fatture e altri di dette nicchie e mostri, sc[udi] 400 luna sono sc[udi] 800.” Avuto il parere favorevole del Granduca, nel 1627 il Tacca, con l’ aiuto dei suoi allievi Bartolomeo Salvini e Francesco Maria Bandini, iniziò l’ esecuzione dei modelli per le due fonti da posizionare ai lati del monumento dei 4 Mori nella darsena di Livorno, e che dovevano servire per il rifornimento d’ acqua delle galere che vi approdavano.

Ma a questo punto accadde una cosa strana, descritta da Filippo Baldinucci nelle sue “Notizie de’ Professori di Disegno da Cimabue in qua” del 1681:
“[Ferdinando II dichiarò che] …ogni opera che [il Tacca] fusse per condurre dovesse essergli pagata…che fu poi sempre praticato, particolarmente nelle due fonti di metallo destinate a situarsi in sul molo di Livorno…per far acqua alle galere, al che essendosi, per ragioni a noi non note, forte opposto, e contro il gusto del Tacca, Andrea Arrighetti provveditore alle fortezze e sovrintendente alle fabbriche….”
E così fontane non arrivarono mai a Livorno.
Nonostante le “ragioni a noi non note” del Baldinucci è plausibile credere che le due fontane con quei getti minimi d’ acqua e anche la loro posizione erano del tutto inadatte a permettere ai marinai di caricare in tempi accettabili le grandi botti delle navi, ed inoltre occupavano troppo spazio sulla darsena rispetto al servizio che avrebbero fatto. Oggi diremmo che non erano affatto “funzionali”, e furono sostituite da normali fontane, come si vede (a destra del monumento dei 4 Mori) nell’ incisione del Porto di Livorno di Stefano della Bella del 1655.

Pietro Tacca morì nell’Ottobre del 1640, ma la fonderia, già del Giambologna, proseguì i lavori col figlio Ferdinando Tacca. L’esecuzione delle due fontane rallentò, ma non si fermò del tutto: abbiamo notizie di pagamenti ai Tacca per le fontane dal 1639 al 1641. I pagamenti riguardavano probabilmente la collocazione delle due fontane in piazza Santissima Annunziata a Firenze, inaugurate il 15 giugno 1641 come scrive Francesco Settimanni nelle sue Memorie Fiorentine: “si videro scoperte per la prima volta le due fontane in bronzo poste sulla piazza della santissima Annunziata, opere di Pietro Tacca.” Sono state incise insieme alla Piazza SS. Annunziata dallo Zocchi a metà del ‘700, e dal Vascellini nel 1777.

Nella scultura la prima metà del ‘600 risente ancora molto del manierismo tardo cinquecentesco del Buontalenti; celebre a Firenze la sua Fontana dello Sprone messa in opera molto probabilmente al 1608 quando tutta la zona venne decorata in occasione del passaggio del corteo nunziale di Cosimo II dei Medici con Maria Maddalena d’Austria (di cui la Galleria Bazzanti ha un modello piccolo) , così come furono collocate le 4 statue delle stagioni agli angoli del Ponte a Santa Trinita degli scultori Francavilla, Landini e Caccini.

Lo stile delle fontane, uguali salvo alcuni dettagli, deriva dalla passione delle forme meravigliose e inconsuete presenti in natura, iniziato nel ‘500 nelle architetture e nei giardini (come in quello di Villa Lante a Bagnania presso Viterbo),

nelle varie collezioni dei Signori europei, nella creazione delle wunderkammer, nell’invenzione appunto di maschere e mostri del Buontalenti e della sua scuola.

Sono gli anni in cui i principi d’Europa fanno a gara a raccogliere meraviglie e mostruosità naturali che conservano nei loro studi con lo scopo di stupire gli ospiti. E’ di gran moda anche l’alchimia, il cui laboratorio è bene sia nascosto e protetto dagli sguardi indiscreti, così come lo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio.
La scelta di creare mostri marini e pesci è stata evidentemente voluta dal Tacca pensando alla collocazione nel porto di Livorno, sul mare, mentre risulta ancor più originale in una piazza come quella della SS. Annunziata.
Quando il Tacca modellava le fontane si è molto probabilmente ispirato, per le ghirlande di pesci sulle basi, a quella della vasca della Fontana degli animali nella grotta della Villa Medicea di Castello, scolpita dal Tribolo alla metà del ‘500.

I due monumenti fiorentini hanno subìto una pulitura e restauro nel novembre del 1745 per ordine del Granduca Ferdinando III dei Medici. Un’altra più di due secoli dopo, nel 1988.

Si dice che la città di Livorno sia rimasta molto male fin dal ‘600 per non aver avuto le due fontane del Tacca. E che questo “sgarbo” sia pesato ai Livornesi per circa 3 secoli.
Nel 1956, per il 350° anniversario della nomina del primo Gonfaloniere della città di Livorno, il Comune di Firenze volle donare una copia fedelissima alla città. Livorno ringraziò e disse: ne vogliamo due come a Firenze, una la paghiamo noi! Come succede in tutti i comuni d’Italia, nacquero problemi e litigi su dove collocarle, etc. Agli inizi degli anni’ 60 il Comune di Firenze procurò il calco negativo eseguito sull’originale dandolo a Marino Marinelli, allora gestore della Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze per eseguire fusioni dei due monumenti.

Fu così che nel 1964 le due fontane arrivarono a Livorno.

E furono immediatamente soprannominate dai Livornesi “le fontane del cacciucco”.
Il cacciucco è una specie di densa zuppa di pesce che viene preparata solo in un breve tatto della costa tirrenica, dalla Versilia a Livorno. Ed è squisito!

La Galleria Bazzanti conserva una replica della Fontana del Tacca tra i suoi monumenti, ed un prezioso modellino ridotto.


I due Ferdinandi

La Galleria Pietro Bazzanti di Firenze è stata acquistata dalla famiglia Marinelli nel 1960, famiglia proprietaria della Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze. Ed è grazie ai “due Ferdinandi”, come viene narrato qui di seguito, che la Fonderia e della Galleria si sono incontrate ed unite.
Ferdinando Marinelli Senior scese, ai primi del ‘900, dall’Umbria a Firenze da ragazzino, per conoscere l’arte della fusione a cera presa che imparò nelle fonderie che fin dal XVI secolo, iniziando col Giambologna, se l’erano trasmesse di padre in figlio.

Nel 1919 rilevò la fonderia Gabellini di Rifredi (Firenze), trasformandola nella Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli.

Si sposò con Delia Gelli da cui ebbe due figli di cui il primogenito, Marino,

continuerà insieme al fratello Aldo l’attività fusoria.
Marino sposò Renee Naylor, e nel 1949, poco dopo che Ferdinando Marinelli Sr. insieme alla moglie Delia “passavano le acque” alle terme di Montecatini,

nacque Ferdinando Marinelli Jr.

Nel 1976 Marino è morto, e la Fonderia è passata a Ferdinando Jr.

La Fonderia era gestita da Ferdinando Sr. in maniera patriarcale, quasi una grande famiglia e aleggiava l’atmosfera di una bottega rinascimentale.

Ferdinando Jr. frequentava spessissimo la Fonderia, incantato dal lavoro degli artigiani, e come ogni bambino imparava al volo senza accorgersene quelle tecniche antiche. I materiali poi erano belli e strani e con nomi misteriosi, il gesso, la polvere di micio, il sapone mescolato all’olio, la cera, le colate, il loto, il fegato di zolfo, la lacca degli Angeli.

Per l’esecuzione dei calchi veniva usata una strana gomma che diventava semi pastosa a bagnomaria e che puzzava tremendamente, ottenuta mescolando la gelatina di ossa di coniglio con la glicerina: le resine siliconiche sarebbero state inventate una ventina di anni dopo. La cera che veniva spennellata dentro a questi calchi negativi era cera d’api (la paraffina adatta a questo tipo di lavoro non esisteva ancora), e mandava un profumo dolce buonissimo.

Ferdinando Jr. ebbe qualche difficoltà nel capire quella strana rete tridimensionale di bastoncini di cera con cui le cere venivano imprigionate,

il perché venivano rinchiuse in quel materiale refrattario che chiamavano “loto”, cioè mota

e poi messe a cuocere a lungo giorno e notte in quegli strani fornelli che venivano costruiti con mattoni e argilla direttamente sopra alle forme di loto.

La fusione era un atto quasi sacro, era difficile che ce lo facessero assistere, e quando capitava dovevo stare fermo e buono da una parte, pena pedate nel sedere. Il forno era una buca in terra riempita di carbone con un ventilatore che soffiava continuamente, in cui veniva inserito il crogiolo pieno di lingotti di bronzo. Occorreva qualche ora perché il metallo fondesse. La gettata veniva eseguita a mano, sollevando il crogiolo con più di 200 kg. di metallo a circa 1000 gradi facendolo colare con precisione dentro alle forme. Ferdinando Jr doveva stare a distanza perché se uno degli quattro operai che tenevano il crogiolo fosse scivolato, la massa di metallo fuso e incandescente sarebbe schizzata dappertutto.

Le forme di loto col bronzo dentro venivano spaccate a martellate per estrarne le fusioni.

E poi i bronzisti, alcuni con i capelli verdi per il rame, ognuno era un personaggio, gelosi dei loro ferri per cesellare.

Quando i saldatori si accendevano le sigarette tenute tra le labbra con la fiamma ossiacetilenica per saldare, Ferdinando Jr. scappava, convinto che si sarebbero fatti volatilizzare anche il naso.

Nel 1976, alla morte del padre Marino, Ferdinando Marinelli Jr. è diventato proprietario anche della Galleria Bazzanti, che, oltre a scolpire i suoi celebri marmi nei propri studi di Carrara e di Pietrasanta, commercializza le sculture in bronzo fuse nella Fonderia, in particolare le repliche dei classici antichi e rinascimentali, di cui possiede i calchi eseguiti in passato sugli originali da Ferdinando Marinelli Sr.