Sergio Benvenuti, un'amicizia artistica e una lunga storia americana - La Fontana dei Due Oceani a San Diego

Quando da bambino andavo a giocare in Fonderia trovavo spesso Sergio Benvenuti intento a creare qualche scultura monumentale, impiastricciato di creta; me lo ricordo facile a improvvise stizze quando la creta non gli ubbidiva subito sotto le mani, pronto, un attimo dopo a raccontare sorridente qualche aneddoto di scultori del passato.
Anche quando, negli anni dell’università ho smesso di frequentare la Fonderia, Sergio Benvenuti era ancora spesso lì, a scolpire.
E quando, a ventisei anni, alla morte del babbo sono stato catapultato in Fonderia, Sergio è stato il primo che è venuto a trovarmi per incoraggiarmi e per darmi la sua disponibilità. Siamo diventati amici di lavoro, la nostra collaborazione è cessata solo alla sua dipartita, ma anche amici di cene e serate. Tutti e due, con i nostri cari, siamo andati a vivere in Chianti, pochi chilometri di distanza.
Quando qualcuno commissionava alla Fonderia un’opera importante, immediatamente convocavo Sergio. E quando qualcuno commissionava una scultura di bronzo a Sergio immediatamente veniva da me in Fonderia, come accadde per la Fontana dei Due Oceani a San Diego, CA., USA, commissionata da Pat Bowlen.
Bowlen, presidente della Bowlen Holding Inc. decise di caratterizzare il nuovo grattacielo che stava costruendo a San Diego con un’Opera d’Arte che ne diventasse il simbolo e che fosse anche un elemento architettonico “forte” per la città. Bowlen ne parlò col suo più stretto collaboratore, l’architetto Dudi Berretti.

Immediatamente entrambi pensarono all’Italia, a Firenze, culla dell’arte e dell’irripetibile momento storico artistico che è stato il Rinascimento. Bowlen aveva studiato da giovane a Firenze, Dudi Berretti viveva e lavorava negli States da oltre trent’anni ma era fiorentino di nascita e d’adozione.
Poco dopo Dudi Berretti venne a Firenze e contattò la Galleria Bazzanti. Visitò anche la Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di cui aveva già sentito parlare negli Stati Uniti, e in Fonderia incontrò il Benvenuti. Gli raccontai del nostro rapporto di amicizia e di lavoro, della sua eccezionale capacità di ideatore e creatore di modelli, oltre che scultore dalle mani d’oro.
Si organizzarono delle cene, e fu proprio in una di queste cene, dopo che Dudi aveva parlato telefonicamente con Pat Bowlen, che nacque la nuova idea del monumento per il costruendo grattacielo di San Diego: una fontana con due personaggi frontali, maschio e femmina, virtualmente appoggiati al loro elemento generatore, una superficie d’acqua: la Fontana dei Due Oceani.
Dopo qualche giorno, in Galleria Bazzanti erano pronti i primi schizzi di Benvenuti che Dudi portò con sé negli States. Pat Bowlen e tutto lo staff ne furono entusiasti. Benvenuti passò al bozzetto in creta poi in gesso, anch’esso approvato dal committente.

Si studiarono gli ultimi dettagli e Benvenuti dette inizio, negli appositi locali della Fonderia, all’ingrandimento del primo dei due personaggi. Nel giro di alcuni mesi l’Oceano Pacifico era terminato in creta, nella grandezza stabilita.

Dopo la definitiva approvazione della Bowlen Holding Inc. iniziò il paziente lavoro della Fonderia: si eseguì con particolare cura il calco negativo della scultura in creta, da cui si ottennero le cere di cui lo stesso Benvenuti seguì il ritocco eseguito dagli artigiani della Fonderia. Si passò poi alla fusione in bronzo con l’antica tecnica della cera persa, alla rifinitura, al montaggio e alla patinatura.
Senza porre tempo in mezzo Benvenuti mise mano all’ingrandimento della seconda scultura, l’Oceano Atlantico. In otto mesi il lavoro incrociato di Benvenuti e della Fonderia trasformò l’idea nata durante una cena in un importante monumento di bronzo. Imballate in due grandi casse di legno le sculture, lasciarono via camion la Fonderia alla volta del porto di Livorno, dove partirono per San Diego, e successivamente trasportate in una tenda appositamente alzata nella piazza ai piedi del nuovo grattacielo. Poco tempo dopo, io, Benvenuti e i tecnici della Fonderia Ferdinando Marinelli e della Galleria Bazzanti raggiungemmo San Diego per il montaggio e l’inaugurazione del monumento.

A tutt’oggi la Fontana dei Due Oceani è un’ importante punto di riferimento urbanistico nella città molto ammirato e amata dai cittadini di San Diego, tanto da dedicargli alcune cartoline postali illustrate.


Fontana dei Tritoni a Malta - Parte II

Il restauro

La precedenza è stata data all’eliminazione delle colate di cemento armate eseguite al suo interno quando la fontana è stata montata alla fine degli anni ‘50 sulla base di travertino.
I tecnici maltesi pensavano così di “irrobustire” le sculture di ottone e di trovare un rapido sistema di bloccaggio delle stesse sulla base.
In realtà il cemento interno ha contribuito a “cuocere” il metallo ed a creare una fitta rete di crepe.

Dopo il collasso negli anni ’70 della fontana dovuto ad un uso improprio del sovrastante bacino in ottone, furono eseguite sommarie riparazioni per rimettere in opera alla meno peggio la fontana stessa.
In questa occasione vennero stuccate con materiale epossidico le pieghe, le rientranze e gli altri danni alla superficie esterna, dovuti al trauma. Il secondo lavoro di restauro è stato quello di eliminare tali stuccature e mettere in luce il reale stato delle sculture.

La dilatazione del cemento e la sua emissione di liquidi chimici ha reso la lega di ottone molto fragile frantumandola in vari punti. Inoltre la tecnica della fusione a cera persa è stata malamente rispettata creando zone di finissimo spessore.

Il lavoro è continuato con la puliture delle superfici tramite micro sabbiatura, permettendo anche l’eliminazione dei focolai di ossidazione e solfatazione e delle infiltrazioni calcaree dovute al cemento e all’acqua della fontana.

La fonderia napoletana ha lasciato sulle sculture la totalità dei “chiodi distanziatori” necessari per la fusione a cera persa, alcuni in ferro altri in rame. La loro reazione chimica (ossidazione e solfatazione) ha creato danni alla superficie delle sculture.
È stato necessario eliminare tali chiodi e allargare il foro lasciato dalla loro estrazione per eliminare del tutto i focolai di reazione chimica.

Da qui è cominciato il lavoro di consolidamento delle molte parti deteriorate, indebolite, rotte in più pezzi, e delle molte crepe nate nelle sculture, tramite saldature esterne ed interne alle sculture, lavoro complesso e delicato dato il pessimo stato del metallo.

Un lavoro particolarmente difficile e delicato è stato quello di ridare la forma originale al bacino, forma che aveva perso sia per la rottura e ripiegatura subita nel crollo del 1978, sia per le pessime riparazioni avute successivamente. Sono state costruite una serie di dime in acciaio con diversi gradi di curvatura che sono servite per ricreare l’esatta curvatura originale del bacino. Questo è stato tagliato in molti punti, riportato in forma e risaldato.
È stato importante ricreare la perfetta complanarità dell’intero bacino per permettere, una volta rimontato sulla fontana, la giusta ed eguale caduta dai bordi dell’acqua.

Le visite delle autorità maltesi si sono concluse con amichevoli pranzi.

Quando tutte le parti sono state consolidate e rinforzate, è iniziato il rimontaggio delle sculture.

E’ stato inserito nei tritoni uno scheletro interno in acciaio inox per scaricare sulla base della fontana il peso, in modo da non gravare sulle sculture. Lo scheletro è stato studiato in modo da permettere anche il passaggio al suo interno dell’acqua della fontana e dei cavi elettrici per l’illuminazione.

ed è stato progettato e costruito un telaio inox a raggiera per consolidare e per non gravare col peso dell’ acqua il bacino di ottone.

Solo a questo punto è stato possibile ricostruire la posizione e il cablaggio originali dei tritoni e del bacino, e preparare una serie di dime d’acciaio necessarie per rimontare l’intera fontana a Malta.

Si è proceduto con la patinatura delle sculture,

all’imballaggio,

al trasporto fino a Malta.

I tecnici della Fonderia Marinelli hanno applicato al pavimento della fontana le staffe in acciaio inox per il rimontaggio della fontana sulla sua base originale, montaggio eseguito grazie alle dime preparate in precedenza.

La Fontana montata a Malta (dettaglio).


Fontana dei Tritoni a Malta - Parte I

La storia

La fontana dei Tritoni è considerata dai maltesi il simbolo della Città di Valletta e dell’intera isola.

Venne modellata negli anni ’50 dallo scultore maltese Vincent Apap, e il sistema idraulico venne progettato dal suo aiutante Victor Anastasi.

La fusione a cera persa dei tre Tritoni e del bacino sovrastante fu affidata alla fonderia Laganà di Napoli che nel 1959 ne terminò il montaggio sulla base di Travertino.

Sopra al bacino venne installato un grande piano di legno trasformandolo in palcoscenico per ospitare spettacoli, tra cui nel 1978 una gara di motociclette che ne causò il collasso con la rottura del bacino e di parti dei Tritoni.

La fontana rimase rotta e inoperante fino al 1986, anno in cui si cercò di rimediare al grave danno applicando un pilastro centrale sotto il bacino, fatto modellare dallo stesso scultore Vincent Apap e fatto fondere a cera persa. Si cercò di raddrizzare nuovamente il bacino e di risaldare in posizioni errate le braccia rotte dei Tritoni.

Per cercare di riportare in piano il bacino, furono applicati tra le mani dei Tritoni e il bacino, dei cuscinetti di cemento.

L’intervento venne eseguito dalle officine meccanico-navali Malta DryDocks, ma il funzionamento della fontana rimase compromesso.

Il restauro

Nel quadro della riqualificazione urbanistica dell’intera “Triton Square” Il Governo di Malta ha richiesto uno studio sulla possibilità di un completo restauro della Fontana posta al centro della piazza.

Per il restauro delle sculture in bronzo è stata chiamata la Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze, e nell’Agosto e nel Settembre 2016 si sono tenute varie riunioni con tecnici ed esponenti del Governo Maltese,

ed alcune indagini tecniche per rilevare il danno che la fontana ha subìto nel 1978, con le successive approssimative riparazioni. La lega con cui sono stati fusi non è bronzo, come previsto, ma ottone, metallo più economico e deperibile del bronzo.

Smontaggio delle sculture e invio alla Fonderia Ferdinando Marinelli

È stata confermata la possibilità di smontaggio e trasporto alla Fonderia Ferdinando Marinelli in Italia delle sculture della fontana, per il restauro e la riparazione dai danni subiti in passato.
I tecnici della Fonderia in collaborazione con la Ditta Maltese Swaey Bros Ltd. hanno provveduto allo smontaggio e alla successiva spedizione dei bronzi alla Fonderia.
La parte inferiore di ogni tritone è stata suo tempo riempita con una colata di cemento che ha bloccato le sculture al solaio di base di cemento. Si è dovuto quindi tagliare in due parti ogni tritone e liberare la parte bassa dal solaio di base.
Si è cominciato con lo smontaggio del bacino

e quindi con quello del tronco centrale di sostegno.

Si è proceduto col taglio a metà di ogni tritone

E il successivo lavoro di distacco dal solaio di cemento di base che è dovuto continuare senza interruzione anche di notte per limitare la chiusura al traffico della piazza.

Arrivo dei bronzi alla Fonderia Marinelli

I bronzi smontati sono stati trasportati via mare e via terra fino alla Fonderia Marinelli a Barberino val d’Elsa, dove sono stati scaricati.

Sono iniziate le indagini chimiche dei prodotti di ossidazione e solfatazione della lega di ottone per rendersi conto di quale tipo di intervento fosse necessario per bloccare tali processi.


La Gipsoteca della Fonderia Ferdinando Marinelli e della Galleria Bazzanti

Il nostro tesoro, oltre alla capacità di lavoro artistico dei nostri artigiani, è quello della Gipsoteca Ferdinando Marinelli, conservata in capannoni a questa riservata, presso la Fonderia artistica.

La nascita della Gipsoteca Ferdinando Marinelli

Ferdinando Marinelli Senior, iniziatore nel 1905 della Fonderia Artistica omonima, ha eseguito i calchi negativi sui capolavori originali classici (Greci, Etruschi, Romani) e Rinascimentali.
Nei primi decenni del ‘900 Ferdinando Marinelli Senior ha avuto il permesso dalle varie autorità di eseguire i calchi di tali sculture direttamente sugli originali presenti nei musei, in alcune chiese e nelle piazze italiane.
In quegli anni era ancora possibile, alle persone accreditate per la capacità di eseguire calchi senza minimamente danneggiare i capolavori, ottenere l’autorizzazione.

La gipsoteca continua a crescere

La collezione di calchi originali è continuata ad arricchirsi con l’attuale proprietario Ferdinando Marinelli Junior: spesso Musei e autorità richiedono alla Fonderia di eseguire calchi su opere da conservare al chiuso e sostituire con repliche eseguite dalla Fonderia, concedendo l’uso di tali calchi. La capacità di lavorare, la cura e l’attenzione verso i capolavori su cui eseguire i calchi è pienamente riconosciuta alla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli da tutte le autorità e le direzioni dei musei italiani ed esteri.

Quando il Governo Italiano volle nel 1930 fare dono di una replica in bronzo del David di Michelangelo alla città di Montevideo, Uruguay, autorizzò Ferdinando Marinelli Senior ad eseguire il calco sull’originale conservato all’Accademia di Belle Arti di Firenze.

Bronzo per Mussolini

Il Museo del Louvre si spinse fino a Firenze per avere la replica in bronzo del Busto di Luigi XVI (Versailles, Parigi), eseguito da Gian Lorenzo Bernini nel 1665 durante il suo soggiorno a Parigi. Il bozzetto venne portato alla Fonderia Ferdinando Marinelli a Firenze per eseguirne il calco utile per tradurre in bronzo una replica destinata alla collezione privata di Benito Mussolini.

E’ grazie a questi calchi originali che la Fonderia Ferdinando Marinelli può eseguire le rinomate repliche fedelissime in bronzo, e scolpire nel proprio studio le repliche in marmo.


Un altro colosso di marmo: La replica dell'Ercole Farnese

Un’altra appassionante avventura è stata quella di scolpire in marmo il colossale Ercole Farnese del Museo di Napoli, statua greca del III secolo d.C., alto tre metri e 17 centimetri.

Si tratta di una delle poche sculture antiche firmata dall’autore: Glicone di Atene, come si vede inciso sulla base della clava.

Anche nella Grecia antica, e non solo a Roma, si amavano le repliche anche di dimensioni diverse dagli originali: infatti questo marmo è la replica ingrandita dell’originale in bronzo eseguito nel IV secolo a. C. dal celebre Lisippo, andata persa.
Ercole, simbolo della forza sovrumana, e infatti era un semidio, è rappresentato con una anatomia potente, quasi esagerata. Suoi attributi sono la pelle del leone Nemeo, mandato da Era (Giunone) per uccidere Ercole. La sua pelle era inattaccabile da lance e frecce, ma Ercole lo stordì con la clava (a cui si appoggia nella scultura) e poi lo strangolò. Usò la sua pelle per farsi una specie di abito che lo rendesse invulnerabile che, nella scultura, ciondola sulla clava.
Questi accessori sono stati usati dallo scultore per creare un grosso sostegno a cui l’Eroe si appoggia: sarebbe stato infatti impossibile far sostenere la sua massa corporea di marmo, per di più inclinata, soltanto sulle due caviglie.

I restauri rinascimentali

Il colosso è stato scavato nelle Terme di Caracalla a Roma alla metà del ‘500, privo dell’avambraccio sinistro e delle gambe.
La filosofia del restauro in epoca rinascimentale era generalmente quella di ricreare le parti mancanti delle opere antiche, in modo da ricomporne la presunta integrità. Era molto difficile per chi aveva una mentalità più “scientifica” convincere i proprietari delle opere archeologiche a lasciarle così com’erano state trovate, senza integrazioni. Si pensi per esempio ai gemelli Romolo e Remo aggiunti nel rinascimento alla Lupa Capitolina probabilmente da Antonio del Pollaiolo.
Riuscì forse solo a Michelangelo con il Torso del Belvedere in marmo del I secolo a. C. (dello scultore greco Apollonio), trovato mutilo a Roma nel ‘400.

Sembra infatti che quando il Papa Giulio II si rivolse a Michelangelo perché riscolpisse le parti mancanti, quest’ultimo si rifiutasse dichiarando che la scultura era magnifica così e che non doveva essere assolutamente toccata. Mentre invece non ebbe molti problemi nel riscolpire le gambe mancanti dell’Ercole Farnese il suo allievo Guglielmo della Porta, accontentando il committente Papa Paolo III (Alessandro Farnese) tanto che, anche quando furono scavate le gambe originali, decise di lasciare al monumento quelle del Della Porta, giudicate più belle delle originali stesse.

La scultura è stata eseguita nello Studio Bazzanti “ai punti” grazie al modello preso sull’originale dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli.

Il difficile trasporto

Il colosso di 5 tonnellate è stato imballato allo Studio di Scultura.

La fase successiva è stata complessa quasi quanto l’aver scolpito l’Ercole! Si è trattato infatti di far entrare in orizzontale il colosso nella Galleria Bazzanti di Firenze per poi metterlo in piedi nel posto giusto. Avendo dovuto far chiudere al traffico il Lungarno, l’operazione si è svolta di notte


Il restauro al Cremlino

Nel 1933 Stalin trasformò due meravigliosi saloni delle feste del Cremlino, le sale di Sant’Andrea e Sant’Alessandro, in stanzoni per le riunioni del PCUS, distruggendo gli arredamenti e le fastose decorazioni originarie.
Quando siamo stati chiamati nel 1998 per il loro restauro completo abbiamo trovato due saloni semivuoti con i muri di mattoni a vista, e il pavimento di cemento grezzo.
Occorreva riportarli all’antico splendore, e in poco tempo.

Il Lavoro

L’appalto è stato vinto da un gruppo di artigiani fiorentini capitanati da Sauro Martini e Fiorenza Bartolozzi, tra cui, per il restauro e la realizzazione con fusioni in bronzo degli apparecchi di illuminazione, la Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli; per il restauro e nuove creazioni dei lavori in marmo la Galleria Bazzanti.
Si è trattato di ricreare, da disegni approssimativi, tutti i modelli delle sculture, dei giganteschi lampadari e appliques ed un camino di marmo, e poi realizzarli in bronzo e in marmo. È stata un’avventura complessa ma affascinante, che ha messo a dura prova tutti gli artigiani fiorentini che hanno contribuito alla splendida realizzazione del restauro.

Il lavoro è andato avanti tra molte difficoltà, i disegni fornitici dai militari russi erano approssimativi, alcuni addirittura irrealizzabili, e le commissioni che venivano in visita in Italia erano sempre diverse ognuna con le proprie idee e richieste. Quello che doveva essere un restauro si è rivelato in realtà una vera e propria ricostruzione da zero.
Tra le molte sculture che ci hanno ordinato ricordiamo l’Aquila Bicipite e la Croce di Sant’Andrea, che sono andati a sostituire i bassorilievi con falce e martello. Sono stati eseguite anche le basi in bronzo dorato dei mastodontici pilastri.

I mastodontici lampadari che dovevamo creare dai disegni sono a tre cerchi sovrapposti con centinaia di luci e decorazioni,

le appliques da muro sono gigantesche,

il camino particolarmente elaborato.

Il montaggio è stato lungo ma il risultato magnifico.


La Galleria Bazzanti dei Romani Antichi

Il desiderio di decorare la propria abitazione con repliche di capolavori del passato, è una moda presente fin dall’epoca romana. I Romani infatti amavano eseguire copie delle sculture greche, spesso “invertendo” i materiali: statue in marmo venivano riprodotte in bronzo, e viceversa. Una buona parte delle sculture greche sono da noi conosciute grazie proprio alle repliche di Roma antica.
Un esempio particolare è quella del colossale Ercole Farnese scolpito in bronzo dal greco Lisippo nel IV sec. A.C., e replicato in marmo nel I sec. A.C. probabilmente da una bottega romana che l’ha firmato col nome del greco Glicone falsificandone l’attribuzione.

Sappiamo che a Roma esistevano botteghe e gallerie d’arte con tali copie in vendita; nella seconda metà del XIX secolo il pittore olandese Alma Tadema ha immaginato proprio due di queste gallerie della Roma antica.

La moda di eseguire repliche di capolavori antichi è continuata nei secoli, fino ad oggi. Gli esempi sono molti, a cominciare dal “Porcellino” di Firenze, la fontana bronzea del cinghiale fatta calcare nel ‘500 al Tacca dai Medici su un marmo antico e riprodurre in bronzo (Vedi anche “Il Porcellino di Firenze“).
Altri esempi sono la Diana Cacciatrice del Museo del Louvre, copia romana di un originale in bronzo greco, attribuito allo scultore Leocare (325 a. C. circa) andato perduto. Ne venne fatto un calco e da cui nel 605 venne fusa una replica in bronzo per una fontana della reggia di Fontainbleau;

replica in bronzo alla Galleria Bazzanti da calco originale;

l’Apollo Belvedere dei Musei Vaticani, anche questa copia romana di marmo del II sec. a.C. del bronzo greco di Leocares del 350 a.C., calcato e fuso da Francesco Primaticcio nel 1541 per il Castello di Fontainebleu; replica in bronzo alla Galleria Bazzanti da calco originale;

il gruppo dei Lottatori, anch’esso copia marmorea romana del I sec. a.C. del perduto originale greco di bronzo del III sec. a.C., probabilmente di Lisippo;

replica in bronzo alla Galleria Bazzanti da calco originale;

il Marte Ludovisi della Galleria Borghese, copia romana di un originale greco del 320 a.C. circa attribuito a Scopa o a Lisippo. Venne ordinato il calco da Velasquez per farne una copia richiesta nel 1650 da Filippo IV re di Spagna.

replica in bronzo alla Galleria Bazzanti da calco originale;

È interessante vedere come anche Michelangelo sia stato ”replicato” a pochi anni dalla sua morte: nel 1570 Egnazio Danti, celebre matematico e cartografo, ottenne l’autorizzazione dal Granduca Cosimo I dei Medici di eseguire i calchi delle 4 figure in marmo scolpite da Michelangelo per le tombe medicee: Alba, Tramonto, Giorno e Notte.
Nel 1573, sei anni dopo la morte di Michelangelo il calco fu eseguito dal fratello Vincenzo Danti, che era stato a Roma a studiare le opere del grande Maestro. E fece i calchi sui modelli originali in creta che Michelangelo aveva creato come modello per i quattro marmi, che evidentemente non erano andati distrutti. Tali calchi poi vennero portati all’Accademia di Perugia.

La Galleria Bazzanti possiede le fusioni in bronzo della Fonderia Ferdinando Marinelli tratte dai calchi originali di Vincenzo Danti.

Nella seconda metà dell’800 i pittori della corrente caratterizzata dalla ricostruzione di scene di vita della Grecia e di Roma antica hanno contribuito a rinverdire la moda degli arredamenti classici già presente nel Rinascimento.


La Porta di Liviu

Un incontro fortuito

Nel 2013 la Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli, insieme alla Galleria Pietro Bazzanti, ha organizzato insieme all’amico Avvocato Federico Frediani una mostra di sculture in bronzo all’ Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles

In quell’occasione è stato invitato a passare due giorni nella villa di amici di Federico a Malibù. E lì, a pranzo, dopo che Ferdinando aveva cucinato un mediocre risotto, ha fatto la conoscenza del dottor Liviu Eftime e della moglie Adina. Due personaggi, come del resto tutta la compagnia, amanti d’arte. Il Dott. Liviu è anche un eccezionale pittore, la moglie è scrittrice. Nasce una piacevole amicizia. Liviu accenna ad una sua costruenda nuova villa per cui vorrebbe scolpire e fondere delle porte in bronzo.

L'inizio della collaborazione

Alla fine del 2017 una serie di telefonate tra Los Angeles e Firenze: Liviu sta creando in creta i modelli della sua porta, ci chiede come eseguirne i calchi negativi e come spedirli in Fonderia a Barberino val d’Elsa. A Marzo 2018 manda le foto del suo lavoro.

Ad Aprile 2018 i calchi negativi arrivano in fonderia. Pochi giorni dopo arriva in Fonderia anche Liviu e viene a trovarci l’amico Federico Frediani. Si va subito a mangiare in campagna.

Il lavoro

Durante le sue visite in Toscana Liviu segue da vicino il lavoro della Fonderia, ritoccando le cere; sostiene infatti che l’opera d’arte non è mai finita, e in ogni fase di lavorazione vuole apportare delle variazioni e modifiche, così come Leonardo da Vinci faceva sul dipinto della Gioconda, che si portava sempre dietro nei suoi viaggi e che ritoccava continuamente.

Le cere vengono ricoperte di materiale refrattario (il loto) e le forme di loto vengono cotte nelle fornaci.

La lavorazione delle formelle appena fuse viene eseguita dagli artigiani della Fonderia insieme a Liviu.

Le formelle vengono saldate e montate per formare le due ante della porta a cui segue un meritato pranzo.

Nel gennaio del 2019 Liviu torna in Italia in Fonderia per il collaudo definitivo, e si festeggia con un altro pranzo.

Le ante, patinate, in attesa dell’imballo e della spedizione a Laguna Beach.


Il Marmo di Carrara e le Cave delle Apuane

Gli Etruschi

Gli inizi dell’estrazione del marmo bianco di Carrara risalgono al VI secolo a-C., ad opera di artigiani etruschi attivi a Pisa e a Volterra, testimoniata da circa un centinaio di monumenti vari (cippi di varia forma, basi di cippo decorate, grandi vasi, ma anche statue femminili e grandi cippi figurati) rinvenuti nel territorio pisano e volterrano. Le varie analisi petrografiche hanno stabilito la provenienza carrarese del marmo apuano usato per tali manufatti.

I Romani

I Romani estraevano già nel II secolo a.C. marmo Bardiglio nei dintorni est di Carrara,

ma scoprirono nella zona del Polvaccio una cava di marmo superiore a quello greco, con grana serrata, cristallizzazione finissima, candore vivacissimo, semitrasparenza: lo Statuario. Nel I secolo a.C. i Romani conquistarono il territorio apuano e potenziarono lo sfruttamento delle cave. Sotto l’imperatore Tiberio le migliori cave vennero acquistate o confiscate ed entrarono nel patrimonio imperiale; in una zona all’interno dell’attuale Carrara reperti romani indicano la presenza di uffici e abitazioni di funzionari romani che riscuotevano il vectigal, la tassa messa dall’imperatore sul marmo, da cui il toponimo Vezzala ancora in uso.
Il porto di raccolta e di smistamento del marmo era Luni, distante circa 10 Km dalle cave. Lo scavo del marmo, gestito su scala industriale fece di questa città il centro marmifero più importante del mediterraneo, e la sua ricchezza durò fino al III secolo d.C. I blocchi venivano trasportati tramite navi lapidarie di grande tonnellaggio. La destinazione principale era Roma, ma il marmo veniva esportato anche in Provenza, in Spagna, e nel Nord Africa.
Nelle cave lavoravano schiavi, detenuti condannati ai lavori forzati e anche artigiani liberi. Si sono individuate 189 cave di età romana in cui sono stati rinvenuti arnesi, blocchi squadrati e marcati, monete, parti di sculture e colonne, ed edicole sacre. La più nota, databile all’inizio del III secolo d.C. è quella dei Fantiscritti da cui le cave hanno preso il nome, scolpita sul marmo della montagna, staccata e custodita all’Accademia di Carrara. Raffigura Giove che abbraccia i suoi figli Ercole e Bacco (trasformazione della divinità autoctona in summo vertice rinvenuta anche a Luni). Era consuetudine dei visitatori delle cave di incidere la propria firma sull’edicola romana, come fece Michelangelo, Giambologna, Canova e in caratteri cirillici il generale russo Osterman Tolstoi.

L'estrazione del marmo

Il metodo di estrazione si basava principalmente sull’individuazione delle fessurazioni naturali del marmo e sull’agire su di esse per il distacco di blocchi: si eseguiva sul blocco un solco a “V” sopra la crepa naturale, in cui venivano infilate a forza cunei di legno che venivano bagnati; la dilatazione del legno spaccava e staccava il blocco dalla montagna.

In alcuni casi potevano bastare a staccare il blocco dei perni di ferro infissi a martellate nel punto di crepa naturale del marmo.

Ogni lavorante del marmo apparteneva ad una delle categorie specializzate: i marmorari che staccavano i blocchi di marmo nelle cave, i quadratori che squadravano i blocchi, i sectores serrarii specializzati nel segare i blocchi, i lapidarii cioè gli scalpellini, i lucidatori del marmo erano i pulitores, quindi gli sculptores, poi i characterarii scultori di lettere e scritte delle lapidi.
I blocchi venivano trasportati a valle nel luogo raggiungibile dai carri, tramite la lizza: si trattava di far scivolare i blocchi per gravità lentamente in maniera controllata sui fianchi dei monti su delle specie di slitte di legno tenute a monte con delle corde.
Il sistema dei Romani antichi di distacco dei blocchi dalla montagna è stato usato fino al XIX secolo, quando si è cominciato ad usare la dinamite.

La tarda antichità

Con l’arte e l’architettura dell’alto medioevo nacque il riutilizzo dei marmi provenienti dalle rovine romane, in particolar modo colonne e capitelli per le chiese, e sarcofagi per le spoglie dei personaggi e santi maggiori.

Il Medioevo e il Rinascimento

È dopo il 1000 che ricomincia l’estrazione del marmo nelle cave Apuane: per la costruzione del Duomo di Pisa terminata nel 1092, del suo Battistero del 1163, del campanile del 1174, e del Camposanto monumentale del 1214.

Nel 1265 Nicola Pisano si reca alle cave di Carrara per scegliere i marmi per il pulpito del Duomo di Siena, nel 1302 Giovanni Pisano fa altrettanto per il pergamo del Duomo di Pisa, e nel 1319 vengono acquistati grandi quantità di marmi per la chiesa di Santa Reparata di Firenze.
Nel ‘400, sotto la signoria dei Malaspina, prende forza la corporazione dei lavoratori del marmo in cui il numero dei cavatori aumenta di anno in anno, e durante il Rinascimento i più grandi artisti arrivano a Carrara per sceglie e acquistare marmi.

In cava

Come abbiamo visto la tecnica estrattiva nelle cave, ed anche il sistema di trasporto dei blocchi al porto di Carrara, sono rimasti gli stessi dai tempi dei Romani fino all’ 800.
La creazione di strade abbastanza sicure transitabili ai carri nelle zone delle cave è sempre stata un’ impresa difficile e pericolosa.

Si è cercato quindi di portare i blocchi dalla cava ad una sottostante zona pianeggiante a cui poter accedere con una strada carrabile, detta poggio caricatore. L’operazione è quella già vista per i romani, cioè la lizza, ed avveniva nello stesso modo. Si continua ad adoprare il peso del carico da far scendere per ottenere l’azione frenante; la lizza (la slitta) su cui veniva caricato il blocco, o più blocchi, veniva fatta scivolare su un pavimento di traverse di legno chiamate parati; se necessario le si insaponavano per diminuire l’attrito. Quando la lizza andava oltre ai parati, si spostavano i parati davanti alla lizza, rinsaponandoli, e così via fino all’arrivo. La lizza era collegata con grosse funi a dei pali di legno infissi nella roccia, chiamati piri,

intorno a cui si avvolgevano 3 o 4 spire dei cavi, in modo che l’attrito rallentasse la discesa del carico.

Al poggio caricatore i blocchi venivano caricati su carri molto bassi con grandi ruote robustissime per reggere le tonnellate di peso dei marmi, trainate da buoi.

Le pariglie e i buoi aumentavano in funzione della grandezza e del peso dei blocchi.

I carri percorrevano i circa 10 chilometri che separavano Carrara dal porto, dove si trasbordavano i marmi sulle navi per trasportarli nei vari porti.

Per Firenze le navi trasbordavano i blocchi a Pisa, al porto sull’Arno, sui più piccoli navicelli

che risalivano il fiume fino al porto di Signa, dove continuavano fino ad arrivare in città nuovamente tramite carri trainati da bovi.

Un particolare lavoro abbastanza pericoloso veniva svolto in cava dai tecchiaioli, operai che si calavano sospesi lungo le pareti dei blocchi di marmo per eliminare con spuntoni di ferro eventuali zone dei blocchi in cui si riconoscevano delle friabilità, per evitare cadute di frammenti di marmo sul piano di lavoro della cava.

Nell’800 per l’estrazione dei marmi dalle cave si iniziò ad usare la polvere pirica, pratica che proseguì fino ai primi del ‘900. L’uso delle mine permetteva il distacco di grandissime parti di marmo dalla montagna. I brillamenti, detti varate, non erano frequenti, perché dopo ogni crollo della parete della cava i blocchi andavano lavorati, tagliati a misura e squadrati.
Si perforava la parete praticando fori profondi in cui si inseriva la carica esplosiva (la mina) collegata al detonatore.
Si calzava poi l’ingresso del buco, e faceva esplodere la carica. Prima però si suonava a lungo una particolare tuba che emetteva note molto basse, per avvisare del pericolo.

Col sistema della varata solamente una parte inferiore al 50% del marmo staccato dalla montagna era adoprabile, e lo sciupo era quindi molto alto. Col tempo si imparò ad usare tecniche esplosive meno potenti e più controllabili che producevano minori materiali di scarto.
Un’ulteriore novità si ebbe alla fine dell’800 con l’invenzione del taglio a filo elicoidale. Si tratta di una sottile fune del diametro di circa mezzo centimetro, composta da tre fili di acciaio attorcigliati. Con pulegge mobili, posizionate e fermate cioè sullo scalino di bancata della cava da dove si vuole staccare il blocco, si fa passare e scorrere in continuazione il cavo versandovi sopra sabbia silicea ed acqua che, trasportata dal cavo tenuto in pressione sopra il blocco, abradono il marmo riuscendo lentamente a tagliarlo. Il circuito è lungo qualche centinaio di metri, e questo permette al filo di raffreddarsi liberandosi del calore prodotto dall’attrito col marmo; Una puleggia a motore da il movimento al filo di circa 5 metri al secondo.

La capacità di fabbricare il filo diamantato ha reso ancora più rapido il taglio dei blocchi per l’estrazione dalla cava: sul filo del diametro di 5 mm ci sono dei piccoli rigonfiamenti (le perline) ravvicinati, ognuno dei quali è ricoperto di polvere di diamante bloccata: viene fatto scorrere sul marmo come il filo elicoidale, ma il taglio è molto più rapido.

La zona di taglio viene raffreddata con un getto continuo d’ acqua.
Anche il trasporto dei blocchi di marmo è completamente cambiato dal dopoguerra in poi: si sono cominciati ad usare camion americani considerati residui bellici ma perfettamente funzionanti, e questo ha incentivato la creazione di strade che arrivassero fino ai piani di estrazione delle cave, senza più bisogno di effettuare la pittoresca ma lenta e pericolosa lizza per far scendere i blocchi in zone raggiungibili. Il carico sui camion avveniva fino a pochi anni fa tramite verricelli di cui i camion erano corredati.

Attualmente il carico sui moderni camion a sei ruote motrici avviene grazie alle enormi pale escavatrici di cui le cave sono sempre dotate.


La partecipazione dello Studio Pietro Bazzanti alle Esposizioni internazionali In Australia

I primi documenti relativi all’arrivo a Sydney in Australia di navi italiane risalgono intorno alla metà dell’800: nel tardo agosto del 1852 arrivò a Sydney il brigantino italiano Rosa di 150 tonnellate; dal 1853 al 1855 sbarcarono e risalparono più volte da Sydney le navi del Regno di Sardegna Distruzione di 400 tonnellate e la goletta Sofia di 120 tonnellate.

Sidney nel 1861

Ma la presenza di Italiani in Australia risale ai primi decenni del ‘800 grazie all’arrivo regolare di navi trasportanti merci di vario tipo, dovuta principalmente alla mancanza quasi totale di produttori locali. Ogni arrivo era atteso con ansia, per avere anche notizie dal resto del mondo, dato che la prima linea telegrafica Australiana risale al 1872.
Fino dal 1816 nei giornali era pubblicizzata la vendita di elementi decorativi italiani in ferro; venivano importati dall’Italia, e venduti alle signore locali, tessuti, foulards di seta, mantelli; alcuni beni venivano anche acquistati in Italia dagli Inglesi, e rivenduti in Australia. Venivano importati dall’Italia cappelli di paglia, bottoni da Firenze, etc. Ed in particolare marmi italiani, sculture in marmo di Carrara e alabastro, mosaici, repliche di sculture romane da Pompei, etrusche e rinascimentali.

Il porto di Melbourne nel 1878

1879 Sidney International Exhibition

Il Governo Italiano non si dimostrò interessato alla partecipazione dell’Italia all’esposizione, tanto da negare perfino l’invio di un rappresentante ufficiale all’inaugurazione. E rifiutò anche qualsiasi supporto economico ai produttori italiani che vi parteciparono. Fu solo la Camera di Commercio di Firenze che supportò il gruppo di produttori e mercanti che decisero di inviare le loro merci.
Uomini e materiali si imbarcarono nei porti di Livorno e di Napoli sulla nave Ben Vorlich di 1504 tonnellate, che sbarcò a Sydney il 2 agosto del 1879.

Il Ben Vorlich

Venne eretta appositamente per l’Esibizione una costruzione in stile neoclassico vittoriano con cupola, il Garden Palace, in cui i padiglioni italiani misuravano in tutto circa 1.000 mq.
I giornali (il South Australian Chronicle and Weekly Mail, il Telegraph and Shoalhaven Advertiser) scrissero che l’attrazione principale erano le sculture in marmo di Carrara dello Studio Bazzanti provenienti da Firenze, bellissime repliche di statue classiche.

Palazzo dell’Esposizione Universale di Sydney

Uno stand dei prodotti italiani

Il 22 Settembre 1882, mentre a Firenze lo Studio di Scultura Bazzanti veniva dai proprietari Pietro e Niccolò allestito in parte come Galleria di vendita di sculture, a Sydney un enorme incendio distruggeva completamente in meno di un’ora il Garden Palace con tutto il suo contenuto.

Dopo l’incendio del 1882

1880 Melbourne International Exhibition

Anche per la successiva Esibizione Internazionale di Sydney il Governo Italiano se ne disinteressò. Le redini furo prese in mano dalla veneziana ditta Olivieri e Sarfatti che diventò l’agenzia degli espositori italiani e si incaricò della raccolta delle merci in Italia, dell’imballo e del trasporto a Melbourne, dell’organizzazione e del posizionamento delle merci a Melbourne, e del ritrasporto in Italia a fine mostra.

La nave Reale Trasporto Europa di 680 tonnellate commissionata dal re d’Italia per il trasporto delle merci italiani all’Esposizione, salpò da Venezia il 12 giugno ed arrivo a Melbourne il 6 settembre 1880. Fece scalo a Brindisi, Port Said, Aden, Ceylon, Singapore, Java, Albany./p>

Reale Trasporto Europa

L’Italia ebbe, nel Melbourne Exhibition Building un ottima posizione, con al pianterreno i saloni d’angolo; in tutto circa 50.000 metri quadrati.

Melbourne Exhibition Building

La Galleria Bazzanti espose 6 sculture in marmo, tra cui il così detto “Michelangelo Giovane”. Ebbe un grande successo.

Fu grazie a questa mostra che 24 anni dopo, nel 1904, si avviò la vendita di una serie di repliche di classici in marmo tra la Galleria Pietro Bazzanti & Figlio e il cosiddetto Felton Bequest, cioè il lascito Bequest con i cui fondi venivano acquistate opere museali per la National Gallery of Victoria.

Lettera del 1904 della Galleria Pietro Bazzanti & Figlio al Lascito Bequest

Dagli inizi del ‘900 i rapporti con clienti Australiani sono continuati fino ad oggi; ci piace ricordare in particolar modo la replica in bronzo del Porcellino del Tacca che la marchesa Fiaschi Torrigiani ha acquistato nel 1969 dalla Galleria Bazzanti per donarla all’Ospedale di Sydney, ed un secondo porcellino di bronzo che nel 2007 ha raggiunto la città di Mandurah non lontana da Perth.