Michelangelo e i 12 apostoli

Mentre Michelangelo era alle prese con la colossale scultura del David, il 24 aprile del 1503 l’ Opera del Duomo gli commissionò un’ altro importante lavoro: l’esecuzione di 12 Apostoli in marmo per ornare le nicchie dei pilastri sotto la cupola del Duomo in grandezza “eroica”, cioè alti circa due metri e venti. Michelangelo avrebbe dovuto consegnarne uno l’anno.
L’arrivo dei blocchi di marmo dalle cave di Carrara avvenne tra il 1504 e il 1505, e il primo ad essere iniziato fu il San Matteo. Riuscì a sbozzarne solo una parte e nel 1505 ripartì per Roma, rescindendo il 18 dicembre 1505 il contratto di allogagione. Potrebbe comunque aver ripreso provvisoriamente in mano il lavoro nel 1506, al suo ritorno a Firenze dopo il litigio col papa Giulio II e la sua fuga da Roma.

Michelangelo, San Matteo, Galleria dell’ Accademia

Michelangelo, San Matteo, Galleria dell’ Accademia, particolari

Raffaello, venuto a Firenze il 1504 e rimastovi fino al 1508 fu fortemente colpito dal San Matteo di Michelangelo, tanto da farne un disegno di studio.

Raffaello, Studio del San Matteo di Michelangelo, British Museum, Londra

Il santo è un personaggio potente, vigoroso, col volto accigliato, e sembra uscire dal blocco non ancora scolpito portando avanti una gamba nuda con una torsione verso sinistra; ha il petto attraversato da una fascia (che avrà visto nello studiare il Sacrificio d’ Isacco di Donatello del 1421) così come la Madonna nella Pietà Vaticana e il Fanciullo Arciere dell’ Ambasciata Francese di New York.

Donatello, Sacrifico d’Isacco, 1421, Museo Opera del Duomo

Il Vasari nelle sue Vite. Scrive:

…Così abbozzata mostra la sua perfezione, ed insegna agli scultori in che maniera si cavano le figure de’ marmi, che senza venghino storpiate, per poter sempre guadagnare col giudizio, levando del marmo, ed avervi da potersi ritrarre e mutare qualcosa, come accade , se bisognassi…

Il San Matteo è conservato al Museo dell’Accademia di Firenze.

La tecnica del "non finito"

Michelangelo si era impossessato della tecnica scultorea del “non finito” fin dalla sua a prima opera, la Madonna della Scala, eseguita nel 1491, a 16 anni.

Madonna della Scala

Madonna della Scala, dettaglio

Questa tecnica presuppone che l’ opera in cui viene applicata sia stata terminata, perché Michelangelo ha lasciato alcune sue opere incompiute, e in questi casi ovviamente non siamo difronte alla “tecnica a non finito”.
Ma anche dove tale tecnica è stata volutamente eseguita, si possono distinguere differenti modalità. Nello stiacciato donatelliano della Madonna della Scala i due putti in alto sono volutamente appena accennati, creando nello spettatore alcuni sottili stati d’ animo: l’ attenzione viene indirizzata sulle parti definite della scultura e il senso impressionistico rende sconosciuto e fascinoso il loro agire, lascia allo spettorare la possibilità di vedere qualcosa che non è completamente formato, di “proiettare” cioè su di essi quello che la sua immaginazione gli detta. Queste caratteristiche fanno nascere il senso di mistero che alla fine si riverbera su tutta l’ opera.
Tale tecnica verrà fatta propria dai pittori impressionisti dell’ ‘800, e ci permette di capire quanto la scultura di Michelangelo, nel ‘500, fosse “moderna” e innovativa.
Michelangelo ha usato questa stessa tecnica ma in maniera più pesante e profonda in altri suoi capolavori, dove crea un senso di sospensione delle figure in attesa di nascere, ancora in parte imprigionate nella materia; l’ esempio più chiaro lo si ha nei quattro Prigioni,

Michelangelo, Prigione Barbuto, Galleria dell’Accademia

Michelangelo, Prigione “Atlante”, Galleria dell’Accademia

Michelangelo, Prigione che si desta, Galleria dell’Accademia

Michelangelo, Prigione giovane, Galleria dell’Accademia

che se è vero che non furono terminati, è altrettanto vero che Michelangelo ha eseguito lo sbozzo dei loro blocchi di marmo in modo particolare e non ortodosso, probabilmente per fermare meravigliosamente il momento della liberazione dell’ anima delle sculture dalla materia; si entra quindi con i prigioni nel dubbio: non terminati ma anche in parte eseguiti con molto “non finito”?
Dubbio in quanto i due Schiavi eseguiti nel 1513-1515, prima dei Prigioni scolpiti nel 1525-1530, furono considerati terminati e finiti; ma nel volto dello Schiavo Ribelle la tecnica del “non finito” appare in modo evidentissimo nel volto.

Michelangelo, Schiavo Ribelle, Museo del Louvre

Questo dubbio nasce con forza anche nella Pietà Bandini, gruppo che sappiamo mai del tutto terminato da Michelangelo. Ma i diversi livelli di “non finito” del corpo e del volto di Maria (in contrasto con la politezza del corpo di Cristo ma non del suo volto né della sua mano sinistra), del busto di Nicodemo non ci permettono di avere una risposta certa.

Pietà Bandini

Pietà Bandini, dettaglio

Pietà Bandini, dettaglio

Anche l’uso della sagrina per finire le superfici di alcune sue opere, come nei corpi del Tondo Pitti ad esempio, ci riportano ad un uso sottile del “non finito” voluto e ricercato da Michelangelo in tutte le sue possibilità.

Tondo Pitti

Tondo Pitti, dettaglio


Michelangelo a Firenze, i Prigioni

Nel novembre del 1518 Michelangelo, a Firenze per la facciata della Basilica di San Lorenzo, acquistava un pezzo di terreno in via Mozza (oggi l’ultima parte dell’attuale via S. Zanobi che si apre su via delle Ruote) e nel 1519 vi faceva edificare un suo studio di scultura di circa 200 mq, con un giardinette su retro.
Prima di trasferirsi definitivamente a Roma nel 1534, aveva lavorato alle Tombe dei Medici per la Sacrestia Nuova della chiesa di S. Lorenzo.

Michelangelo, modello ligneo per la facciata di San Lorenzo, 1518, Casa Buonarroti

Il 9 aprile del 1519 gli fu portato con un carro trainato da 5 bovi un blocco di marmo che aveva acquistato a Carrara, nella cava dei Fantiscritti, e successivamente molti altri per la Sacrestia Nuova e per l’enorme progetto della Tomba per il papa Giulio II.

Schema del primo progetto della tomba di Giulio II. Alla base erano previsti i Prigioni

Giacomo Rocchetti, disegno della tomba di Giulio II prevista nel secondo contratto. del 1513, Prigioni sono ancora presenti, Kupferstichkabinett, Berlino

Michelangelo, parte inferiore del disegno della tomba di Giulio II prevista nel secondo contratto del 1513, i Prigioni sono ancora presenti, Uffizi

Nel 1534 si trasferiva definitivamente a Roma, lasciano nel suo studio di Firenze modelli in cera e creta, marmi e delle sculture, che andarono rubati durante l’ assedio di Firenze del 1529. Alcuni furono poi recuperati o erano rimasti, in particolare i quattro Prigioni (o Schiavi) non terminati, anch’ essi pensati per la tomba di Giulio II.
Questa infatti, nel primo faraonico progetto, avrebbe dovuto avere in basso dai 16 ai 20 Prigioni grandi una volta e mezzo il naturale, che nascevano e fuoriuscivano dal blocco di marmo. Come sappiamo il primo progetto non andò in porto in quanto nel 1513 la tomba fu ridisegnata in forme minori dove i Prigioni sarebbero dovuti diventare 12. Nel 1516 un terzo progetto rimpiccoliva ancora di più la tomba e i Prigioni dovevano diventare 8. Nei successivi altri 2 progetti sempre più ridotti del 1526 e 1532 darebbero diventati 4. Nel progetto definitivo del 1542 (il sesto) i Prigioni non erano più previsti.

Nel 1550 Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I, acquistò il Palazzo Pitti per trasferirvi la famiglia e tutta la corte, compreso il terreno posto sulla facciata posteriore del Palazzo, che fece trasformare nello splendido Giardino di Boboli.

Giusto Utens, Lunetta con Palazzo Pitti e Giardino di Boboli, 1599, Villa La Petraia

I quattro Prigioni Fiorentini previsti nel progetto della tomba di Giulio II e poi non più necessari erano rimasti nello studio di via Mozza e furono donati nel 1564 da Leonardo Buonarroti nipote di Michelangelo al Granduca Cosimo I.
Il duca Francesco I, figlio di Cosimo e suo successore, fece costruire tra il 1583 e il 1593 dal Buontalenti una grotta artificiale di più vani rivestita con finte rocce (il Vasari ne progettò l’ ingresso), in cui fece incastonare i 4 Prigioni come se stessero lottando per nascere e uscire dalle rocce. E li sono rimasti fino ai primi del ‘900 quando furono portati nella Galleria dell’ Accademia.
Successivamente sono stati riinseriti nelle posizioni originarie delle repliche in gesso.

Giardino di Boboli, ingresso vasariano alla grotta del Buontalenti

Lo studio anatomico dello Schiavo Barbuto è sorprendente: il torso muscoloso in torsione, il braccio destro sollevato nell’ eccezionale posa di reggersi e stringersi la testa piegata. Nonostante sia quello più finito dei quattro, le potenti gambe divaricate tenute da una fascia, ancora unite alla roccia che le genera così come la mano sinistra ancora non formata, danno un eccezionale senso di risveglio, di potente forza, di divinità Pagana in procinto di apparire nell’ Olimpo degli dei, caratteristiche rese vibranti anche dalle superfici che mostrano i segni degli scalpelli con cui Michelangelo le stava facendo nascere.

Michelangelo, Prigione Barbuto, Galleria dell’Accademia

Lo Schiavo Atlante, non finito, sembra avere la testa dentro il blocco di marmo che regge con sforzo sia delle gambe divaricate e piegate che del braccio sinistro le cui muscolature sono in tensione. La figura cerca di liberarsi dalla pietra da cui nasce ed è lo stato di non finito che amplifica ed evidenzia l’ energia che lo Schiavo sta per scatenare.

Michelangelo, Prigione “Atlante”, Galleria dell’Accademia

Lo Schiavo che si desta: una potente figura maschile si gira nel marmo che ancora lo attanaglia. La faccia è sbozzata nei lineamenti. La gamba destra e il braccio sinistro, benchè ancora accennati, a differenza del torso che è terminato, formano una curva ad “S” che amplificano la sensazione di risveglio non ancora libero dalla roccia in cui è bloccato. Anche in questo Schiavo, come del resto negli altri tre, gli arti e le anatomie sono massicce e potenti.

Michelangelo, Prigione che si desta, Galleria dell’Accademia

Lo Schiavo Giovane è poco più che sbozzato, l’unica parte a cui Michelangelo ha dato una prima lisciatura è il ginocchio: la parte del corpo che si sporge e che per prima è uscita dal marmo. Il gigante sembra svegliarsi mentre fuoriesce dalla roccia che vuole partorirlo. Anche la posa del braccio piegato che copre parte del volto e il ginocchio proteso parlano di una nascita. Ed infatti è il più giovane dei quattro. Le uniche masse muscolari sono quelle del torso, appena accennate, ma anche così parlano di divinità di grande forza e potenza, potenza che lo schiavo prende dalla terra e dalla roccia da cui si sta staccando.

Michelangelo, Prigione Giovane, Galleria dell’Accademia

Michelangelo, Prigione Giovane, Fusione in bronzo statuario postuma da calco eseguito sull’originale dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze

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Michelangelo, Prigione Barbuto, Fusione in bronzo statuario postuma da calco eseguito sull’originale dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze


La Fontana del Cacciucco

Da una lettera del 25 giugno 1626, che il Camerlengo Lorenzo Usimbardi scriveva al Granduca Ferdinando II de’ Medici:” appare che Pietro Tacca servo fedelissimo di VV.SS. humilissimamente esprime come avendo messo in opera tutti quanti li schiavi, per compimento di quest’opera è necessario far sotto i piedi del granduca Ferdinando di Gloriosa Memoria li trofei e spoglie di detti schiavi… et più conviene fare le dua fonti e dall’una e dall’altra parte di detta base che di tutto è necessario che VV.AA. dieno ordini al Sig. Provved[itore] Guidotti.”

Il Granduca nel 1621 aveva infatti commissionato a Pietro Tacca la realizzazione dei modelli e delle fusioni in bronzo a cera persa di quattro prigionieri mori incatenati da aggiungere alla base della statua da lui commissionata nel 1595 allo scultore Giovanni Bandini in marmo di Carrara e collocata nella darsena di Livorno nel 1601 (attuale piazza Micheli).

Il monumento avrebbe rappresentato la vittoria dell’Ordine di Santo Stefano sui corsari barbareschi, cioè sui pirati musulmani, nordafricani e ottomani, il più noto e crudele  dei quali era conosciuto come Barbarosa.

L’Ordine venne fondato dal Papa Pio IV nella seconda metà del ‘500 su insistenza di Cosimo I de’ Medici che ne fu nominato Gran Maestro e il titolo sarebbe passato ai suoi successori. Si trattava in sintesi di un Ordine corsaro simile, ma cristiano.

Pietro Tacca ereditò la fonderia del Giambologna, con cui lavorava dal 1592, nel 1606.
Nel 1620 su richiesta di Cosimo II dei Medici eseguì il calco del cinghiale ellenistico di marmo agli Uffizi per fonderne un replica in bronzo, il celebre Porcellino, da porre alle logge del mercato nuovo, e modellò una nuova base, non presente nell’originale di marmo. Ne eseguì la fusione nel 1633.

Da una lettera del 6 ottobre 1627 del Provveditore Leonardo Guidotti conosciamo la spesa stimata dal Tacca per la realizzazione delle due fontane: “Quanto alle dua fontane, il Tacca dicie che in ciascheduna di esse vi sarà di spesa sc[udi] 200 in fare il ricetto, e Balaustro con le mensole tutte di marmi sono sc[udi] 400. Per fare le dua Nicchie li Mostri et altri ornamenti vi andera Duc[ati] 700 di Bronzo per Ciascun,o sc[udi] 126 e per le spese di fatture e altri di dette nicchie e mostri, sc[udi] 400 luna sono sc[udi] 800.” Avuto il parere favorevole del Granduca, nel 1627 il Tacca, con l’ aiuto dei suoi allievi Bartolomeo Salvini e Francesco Maria Bandini, iniziò l’ esecuzione dei modelli per le due fonti da posizionare ai lati del monumento dei 4 Mori nella darsena di Livorno, e che dovevano servire per il rifornimento d’ acqua delle galere che vi approdavano.

Ma a questo punto accadde una cosa strana, descritta da Filippo Baldinucci nelle sue “Notizie de’ Professori di Disegno da Cimabue in qua” del 1681:
“[Ferdinando II dichiarò che] …ogni opera che [il Tacca] fusse per condurre dovesse essergli pagata…che fu poi sempre praticato, particolarmente nelle due fonti di metallo destinate a situarsi in sul molo di Livorno…per far acqua alle galere, al che essendosi, per ragioni a noi non note, forte opposto, e contro il gusto del Tacca, Andrea Arrighetti provveditore alle fortezze e sovrintendente alle fabbriche….”
E così fontane non arrivarono mai a Livorno.
Nonostante le “ragioni a noi non note” del Baldinucci è plausibile credere che le due fontane con quei getti minimi d’ acqua e anche la loro posizione erano del tutto inadatte a permettere ai marinai di caricare in tempi accettabili le grandi botti delle navi, ed inoltre occupavano troppo spazio sulla darsena rispetto al servizio che avrebbero fatto. Oggi diremmo che non erano affatto “funzionali”, e furono sostituite da normali fontane, come si vede (a destra del monumento dei 4 Mori) nell’ incisione del Porto di Livorno di Stefano della Bella del 1655.

Pietro Tacca morì nell’Ottobre del 1640, ma la fonderia, già del Giambologna, proseguì i lavori col figlio Ferdinando Tacca. L’esecuzione delle due fontane rallentò, ma non si fermò del tutto: abbiamo notizie di pagamenti ai Tacca per le fontane dal 1639 al 1641. I pagamenti riguardavano probabilmente la collocazione delle due fontane in piazza Santissima Annunziata a Firenze, inaugurate il 15 giugno 1641 come scrive Francesco Settimanni nelle sue Memorie Fiorentine: “si videro scoperte per la prima volta le due fontane in bronzo poste sulla piazza della santissima Annunziata, opere di Pietro Tacca.” Sono state incise insieme alla Piazza SS. Annunziata dallo Zocchi a metà del ‘700, e dal Vascellini nel 1777.

Nella scultura la prima metà del ‘600 risente ancora molto del manierismo tardo cinquecentesco del Buontalenti; celebre a Firenze la sua Fontana dello Sprone messa in opera molto probabilmente al 1608 quando tutta la zona venne decorata in occasione del passaggio del corteo nunziale di Cosimo II dei Medici con Maria Maddalena d’Austria (di cui la Galleria Bazzanti ha un modello piccolo) , così come furono collocate le 4 statue delle stagioni agli angoli del Ponte a Santa Trinita degli scultori Francavilla, Landini e Caccini.

Lo stile delle fontane, uguali salvo alcuni dettagli, deriva dalla passione delle forme meravigliose e inconsuete presenti in natura, iniziato nel ‘500 nelle architetture e nei giardini (come in quello di Villa Lante a Bagnania presso Viterbo),

nelle varie collezioni dei Signori europei, nella creazione delle wunderkammer, nell’invenzione appunto di maschere e mostri del Buontalenti e della sua scuola.

Sono gli anni in cui i principi d’Europa fanno a gara a raccogliere meraviglie e mostruosità naturali che conservano nei loro studi con lo scopo di stupire gli ospiti. E’ di gran moda anche l’alchimia, il cui laboratorio è bene sia nascosto e protetto dagli sguardi indiscreti, così come lo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio.
La scelta di creare mostri marini e pesci è stata evidentemente voluta dal Tacca pensando alla collocazione nel porto di Livorno, sul mare, mentre risulta ancor più originale in una piazza come quella della SS. Annunziata.
Quando il Tacca modellava le fontane si è molto probabilmente ispirato, per le ghirlande di pesci sulle basi, a quella della vasca della Fontana degli animali nella grotta della Villa Medicea di Castello, scolpita dal Tribolo alla metà del ‘500.

I due monumenti fiorentini hanno subìto una pulitura e restauro nel novembre del 1745 per ordine del Granduca Ferdinando III dei Medici. Un’altra più di due secoli dopo, nel 1988.

Si dice che la città di Livorno sia rimasta molto male fin dal ‘600 per non aver avuto le due fontane del Tacca. E che questo “sgarbo” sia pesato ai Livornesi per circa 3 secoli.
Nel 1956, per il 350° anniversario della nomina del primo Gonfaloniere della città di Livorno, il Comune di Firenze volle donare una copia fedelissima alla città. Livorno ringraziò e disse: ne vogliamo due come a Firenze, una la paghiamo noi! Come succede in tutti i comuni d’Italia, nacquero problemi e litigi su dove collocarle, etc. Agli inizi degli anni’ 60 il Comune di Firenze procurò il calco negativo eseguito sull’originale dandolo a Marino Marinelli, allora gestore della Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze per eseguire fusioni dei due monumenti.

Fu così che nel 1964 le due fontane arrivarono a Livorno.

E furono immediatamente soprannominate dai Livornesi “le fontane del cacciucco”.
Il cacciucco è una specie di densa zuppa di pesce che viene preparata solo in un breve tatto della costa tirrenica, dalla Versilia a Livorno. Ed è squisito!

La Galleria Bazzanti conserva una replica della Fontana del Tacca tra i suoi monumenti, ed un prezioso modellino ridotto.


Fonderia, aspetti nascosti

Le fusioni a cera persa in bronzo presuppongono un lungo lavoro di artigiani specializzatissimi. Questo è vero in particolar modo per l’esecuzione di repliche dei maggiori capolavori d’arte. Quando una scultura in bronzo esce dalla fonderia, ha una splendida patina, lucida, pulita, affascinante.
Ma il lavoro che porta dal calco alla scultura finita viene eseguito in spazi e zone disordinati, polverosi, imbrattati di cera e di altri materiali, come un po’ accade in tutte le botteghe artigiane. Se vogliamo, abbastanza sporchi, forse di uno sporco “artistico”, ma comunque sporco. Lo sporco sottile, la polvere, viene catturata dagli aspiratori presenti dappertutto; rimane lo sporco più pesante e appiccicaticcio.

Nella Fonderia Marinelli, come in qualunque fonderia artistica a cera persa, ci sono zone, particolari, oggetti che normalmente non appaiono nelle immagini, ma che rappresentano anch’esse il lavoro preparatorio per le fusioni in bronzo.
Recentemente una artista che adopra la fotografia come mezzo espressivo è venuta a farci visita in Fonderia, chiedendo di fotografare appunto fasi e zone di lavoro. Ha fatto centinaia di scatti, scegliendone alcuni che ci ha cortesemente fatto avere, e che proponiamo in questo blog.
Il lavabo della zona in cui viene impastato il materiale refrattario per coprire le cere, il cossidetto”loto”.

Relative al “loto” sono anche altre due immagini: i sacchi di polvere di mattone macinato e le “calderelle” usate anche in mille altri mestieri, e grandi sacchi in cui il loto macinato viene conservato per essere riusato.

Una maggiore quantità di scatti fotografici è stata fatta per il reparto in cui vengono eseguite e poi ritoccate le cere.

Una volta eseguite e ritoccate le cere, prima di essere rivestite col “loto”, hanno bisogno di essere circondate da una rete di canali che serviranno a portare il bronzo fuso in ogni parte, canali che vengono eseguiti con semplici canne di fiume.

L’artista ci ha chiesto di poter tornare in Fonderia per fotografare anche il lavoro (e lo sporco!) sul bronzo.