Il Marmo di Carrara e le Cave delle Apuane
Gli Etruschi
Gli inizi dell’estrazione del marmo bianco di Carrara risalgono al VI secolo a-C., ad opera di artigiani etruschi attivi a Pisa e a Volterra, testimoniata da circa un centinaio di monumenti vari (cippi di varia forma, basi di cippo decorate, grandi vasi, ma anche statue femminili e grandi cippi figurati) rinvenuti nel territorio pisano e volterrano. Le varie analisi petrografiche hanno stabilito la provenienza carrarese del marmo apuano usato per tali manufatti.
I Romani
I Romani estraevano già nel II secolo a.C. marmo Bardiglio nei dintorni est di Carrara,
ma scoprirono nella zona del Polvaccio una cava di marmo superiore a quello greco, con grana serrata, cristallizzazione finissima, candore vivacissimo, semitrasparenza: lo Statuario. Nel I secolo a.C. i Romani conquistarono il territorio apuano e potenziarono lo sfruttamento delle cave. Sotto l’imperatore Tiberio le migliori cave vennero acquistate o confiscate ed entrarono nel patrimonio imperiale; in una zona all’interno dell’attuale Carrara reperti romani indicano la presenza di uffici e abitazioni di funzionari romani che riscuotevano il vectigal, la tassa messa dall’imperatore sul marmo, da cui il toponimo Vezzala ancora in uso.
Il porto di raccolta e di smistamento del marmo era Luni, distante circa 10 Km dalle cave. Lo scavo del marmo, gestito su scala industriale fece di questa città il centro marmifero più importante del mediterraneo, e la sua ricchezza durò fino al III secolo d.C. I blocchi venivano trasportati tramite navi lapidarie di grande tonnellaggio. La destinazione principale era Roma, ma il marmo veniva esportato anche in Provenza, in Spagna, e nel Nord Africa.
Nelle cave lavoravano schiavi, detenuti condannati ai lavori forzati e anche artigiani liberi. Si sono individuate 189 cave di età romana in cui sono stati rinvenuti arnesi, blocchi squadrati e marcati, monete, parti di sculture e colonne, ed edicole sacre. La più nota, databile all’inizio del III secolo d.C. è quella dei Fantiscritti da cui le cave hanno preso il nome, scolpita sul marmo della montagna, staccata e custodita all’Accademia di Carrara. Raffigura Giove che abbraccia i suoi figli Ercole e Bacco (trasformazione della divinità autoctona in summo vertice rinvenuta anche a Luni). Era consuetudine dei visitatori delle cave di incidere la propria firma sull’edicola romana, come fece Michelangelo, Giambologna, Canova e in caratteri cirillici il generale russo Osterman Tolstoi.
L'estrazione del marmo
Il metodo di estrazione si basava principalmente sull’individuazione delle fessurazioni naturali del marmo e sull’agire su di esse per il distacco di blocchi: si eseguiva sul blocco un solco a “V” sopra la crepa naturale, in cui venivano infilate a forza cunei di legno che venivano bagnati; la dilatazione del legno spaccava e staccava il blocco dalla montagna.
In alcuni casi potevano bastare a staccare il blocco dei perni di ferro infissi a martellate nel punto di crepa naturale del marmo.
Ogni lavorante del marmo apparteneva ad una delle categorie specializzate: i marmorari che staccavano i blocchi di marmo nelle cave, i quadratori che squadravano i blocchi, i sectores serrarii specializzati nel segare i blocchi, i lapidarii cioè gli scalpellini, i lucidatori del marmo erano i pulitores, quindi gli sculptores, poi i characterarii scultori di lettere e scritte delle lapidi.
I blocchi venivano trasportati a valle nel luogo raggiungibile dai carri, tramite la lizza: si trattava di far scivolare i blocchi per gravità lentamente in maniera controllata sui fianchi dei monti su delle specie di slitte di legno tenute a monte con delle corde.
Il sistema dei Romani antichi di distacco dei blocchi dalla montagna è stato usato fino al XIX secolo, quando si è cominciato ad usare la dinamite.
La tarda antichità
Con l’arte e l’architettura dell’alto medioevo nacque il riutilizzo dei marmi provenienti dalle rovine romane, in particolar modo colonne e capitelli per le chiese, e sarcofagi per le spoglie dei personaggi e santi maggiori.
Il Medioevo e il Rinascimento
È dopo il 1000 che ricomincia l’estrazione del marmo nelle cave Apuane: per la costruzione del Duomo di Pisa terminata nel 1092, del suo Battistero del 1163, del campanile del 1174, e del Camposanto monumentale del 1214.
Nel 1265 Nicola Pisano si reca alle cave di Carrara per scegliere i marmi per il pulpito del Duomo di Siena, nel 1302 Giovanni Pisano fa altrettanto per il pergamo del Duomo di Pisa, e nel 1319 vengono acquistati grandi quantità di marmi per la chiesa di Santa Reparata di Firenze.
Nel ‘400, sotto la signoria dei Malaspina, prende forza la corporazione dei lavoratori del marmo in cui il numero dei cavatori aumenta di anno in anno, e durante il Rinascimento i più grandi artisti arrivano a Carrara per sceglie e acquistare marmi.
In cava
Come abbiamo visto la tecnica estrattiva nelle cave, ed anche il sistema di trasporto dei blocchi al porto di Carrara, sono rimasti gli stessi dai tempi dei Romani fino all’ 800.
La creazione di strade abbastanza sicure transitabili ai carri nelle zone delle cave è sempre stata un’ impresa difficile e pericolosa.
Si è cercato quindi di portare i blocchi dalla cava ad una sottostante zona pianeggiante a cui poter accedere con una strada carrabile, detta poggio caricatore. L’operazione è quella già vista per i romani, cioè la lizza, ed avveniva nello stesso modo. Si continua ad adoprare il peso del carico da far scendere per ottenere l’azione frenante; la lizza (la slitta) su cui veniva caricato il blocco, o più blocchi, veniva fatta scivolare su un pavimento di traverse di legno chiamate parati; se necessario le si insaponavano per diminuire l’attrito. Quando la lizza andava oltre ai parati, si spostavano i parati davanti alla lizza, rinsaponandoli, e così via fino all’arrivo. La lizza era collegata con grosse funi a dei pali di legno infissi nella roccia, chiamati piri,
intorno a cui si avvolgevano 3 o 4 spire dei cavi, in modo che l’attrito rallentasse la discesa del carico.
Al poggio caricatore i blocchi venivano caricati su carri molto bassi con grandi ruote robustissime per reggere le tonnellate di peso dei marmi, trainate da buoi.
Le pariglie e i buoi aumentavano in funzione della grandezza e del peso dei blocchi.
I carri percorrevano i circa 10 chilometri che separavano Carrara dal porto, dove si trasbordavano i marmi sulle navi per trasportarli nei vari porti.
Per Firenze le navi trasbordavano i blocchi a Pisa, al porto sull’Arno, sui più piccoli navicelli
che risalivano il fiume fino al porto di Signa, dove continuavano fino ad arrivare in città nuovamente tramite carri trainati da bovi.
Un particolare lavoro abbastanza pericoloso veniva svolto in cava dai tecchiaioli, operai che si calavano sospesi lungo le pareti dei blocchi di marmo per eliminare con spuntoni di ferro eventuali zone dei blocchi in cui si riconoscevano delle friabilità, per evitare cadute di frammenti di marmo sul piano di lavoro della cava.
Nell’800 per l’estrazione dei marmi dalle cave si iniziò ad usare la polvere pirica, pratica che proseguì fino ai primi del ‘900. L’uso delle mine permetteva il distacco di grandissime parti di marmo dalla montagna. I brillamenti, detti varate, non erano frequenti, perché dopo ogni crollo della parete della cava i blocchi andavano lavorati, tagliati a misura e squadrati.
Si perforava la parete praticando fori profondi in cui si inseriva la carica esplosiva (la mina) collegata al detonatore.
Si calzava poi l’ingresso del buco, e faceva esplodere la carica. Prima però si suonava a lungo una particolare tuba che emetteva note molto basse, per avvisare del pericolo.
Col sistema della varata solamente una parte inferiore al 50% del marmo staccato dalla montagna era adoprabile, e lo sciupo era quindi molto alto. Col tempo si imparò ad usare tecniche esplosive meno potenti e più controllabili che producevano minori materiali di scarto.
Un’ulteriore novità si ebbe alla fine dell’800 con l’invenzione del taglio a filo elicoidale. Si tratta di una sottile fune del diametro di circa mezzo centimetro, composta da tre fili di acciaio attorcigliati. Con pulegge mobili, posizionate e fermate cioè sullo scalino di bancata della cava da dove si vuole staccare il blocco, si fa passare e scorrere in continuazione il cavo versandovi sopra sabbia silicea ed acqua che, trasportata dal cavo tenuto in pressione sopra il blocco, abradono il marmo riuscendo lentamente a tagliarlo. Il circuito è lungo qualche centinaio di metri, e questo permette al filo di raffreddarsi liberandosi del calore prodotto dall’attrito col marmo; Una puleggia a motore da il movimento al filo di circa 5 metri al secondo.
La capacità di fabbricare il filo diamantato ha reso ancora più rapido il taglio dei blocchi per l’estrazione dalla cava: sul filo del diametro di 5 mm ci sono dei piccoli rigonfiamenti (le perline) ravvicinati, ognuno dei quali è ricoperto di polvere di diamante bloccata: viene fatto scorrere sul marmo come il filo elicoidale, ma il taglio è molto più rapido.
La zona di taglio viene raffreddata con un getto continuo d’ acqua.
Anche il trasporto dei blocchi di marmo è completamente cambiato dal dopoguerra in poi: si sono cominciati ad usare camion americani considerati residui bellici ma perfettamente funzionanti, e questo ha incentivato la creazione di strade che arrivassero fino ai piani di estrazione delle cave, senza più bisogno di effettuare la pittoresca ma lenta e pericolosa lizza per far scendere i blocchi in zone raggiungibili. Il carico sui camion avveniva fino a pochi anni fa tramite verricelli di cui i camion erano corredati.
Attualmente il carico sui moderni camion a sei ruote motrici avviene grazie alle enormi pale escavatrici di cui le cave sono sempre dotate.